Vent’anni fa moriva Arthur Ashe, grandissimo campione e grandissimo uomo. Simbolo della riscossa degli uomini di colore nella società civile e impegnato combattente per i diritti civili in America e nel mondo. Primo nero a vincere tre tornei dello Slam, ha lasciato tantissimi souvenirs, che andranno all’asta per garantire alla sua fondazione nuovi fondi.
Il
6 febbraio 1993 ci lasciava a soli cinquant’anni Arthur Ashe.
Penso
che pochi tra i nostri lettori non sappiano, almeno per sentito dire, chi
fosse, e quale posto occupi nella Storia del Tennis questo gran giocatore, ma
soprattutto questo grande e coraggioso
Gentiluomo.
Nel ventesimo
anniversario della sua morte, e nel quarantacinquesimo della storica vittoria
agli US Open, vanno all’asta alcuni suoi oggetti e ricordi, e saranno battuti a Los Angeles
da Nate D. Sanders Auctions. Questi oggetti acquistano valore non solo per
l’effettiva importanza sportiva e tennistica, ma portano con loro tutta la
forza e l’energia delle battaglie del giocatore afroamericano. Le sue sfide
sportive, quelle sociali, quelle umane, quelle che hanno coinvolto tre decadi
della società moderna. Pensare che abbia
portato sulle sue spalle, con stile, eleganza e onore indiscussi, le bandiere
del riscatto dei ragazzi di colore sui campi da tennis, i diritti degli stessi
giocatori professionisti di tennis, le istanze degli ammalati di cuore e di
AIDS a metà degli anni Ottanta e Novanta, l’impegno civile e sociale, ci rende
consci del potere che può avere una racchetta da giuoco nelle mani di un uomo.
E pensare che da
piccolo era piuttosto goffo ed esilino,
e non proveniva certo da famiglia ricca. Anzi, sua madre morì quando egli aveva
sette anni, e il padre era piuttosto rigoroso nella disciplina e faceva il
tuttofare. Esplose nel tennis quando a vent’anni venne convocato, primo
afroamericano, nella squadra di Davis, era il 1963. Grazie al tennis riuscì a
uscire dai limitati, e razzisti, confini di Richmond, Virginia e diventare il
primo vincitore degli US Open, l’unico di colore ancora al giorno d’oggi. Come
rimane l’unico uomo di colore a vincere Australian
Open (1970) e Wimbledon (1975). Solo Yannich Noah, vincendo il Roland
Garros (1983), Slam sfuggito al grande Arthur anche per colpa del nostro
Bertolucci, è l’unico altro tennista dalla pelle nera a trionfare a così alto
livello tennistico.
Il
computer non lo registrò mai al numero 1 delle classifiche del singolare, lo
fece invece Harry Hopman, che lo considerava tale nel 1968. Fu invece il numero
uno tra i gentleman dei courts, solo Ilie Nastase, nel Masters 1975 di
Stoccolma, riuscì a portarlo all’esaurimento nervoso, e a quanto pensa Clerici,
sull’orlo dell’omicidio. Certo anche
Connors lo doveva urtare parecchio se disse: “Giuro che ogni volta che nello
spogliatoio incontro Connors devo forzarmi per non dargli un pugno in bocca”.
Le
sue lotte più famose da tennista e uomo di colore risalgono ai primi anni ’70,
quando fu uno dei giocatori a spingere per la creazione dell’ATP, nel 1972. Sempre in quell’anno denunciò la politica
dell’apartheid del governo sudafricano, visto che lo esclusero dal South
African Open negandogli il visto d’entrata: lui sostenne sui giornali che il
Sudafrica avrebbe dovuto venir escluso dal circuito tennistico mondiale. Venne
addirittura arrestato due volte (nel 1985 e nel 1992) a causa della sua
attività di supporto dei movimenti civili americani.
Si
ritirò dal tennis nel 1980, ma tante partite lo aspettavano. Di quelle civili
abbiamo già accennato, ma fu così forte da affrontare con combattività (quella
che a volte gli mancò sui courts) le
malattie che la vita gli riservò. Nel
1979 dovette infatti iniziare a fare i conti con frequenti attacchi cardiaci
che lo costrinsero a ripetuti interventi chirurgici. Sfortunatamente, durante
uno di questi, avvenuto nel 1988, una trasfusione di sangue era infetta del
virus dell’HIV. Lui e la moglie tennero nascosta la notizia fino al 1992,
quando le sue condizioni divennero seriamente critiche. Anche perché, come
disse: “L'Aids non è stato il peso più assillante della mia esistenza, lo è
stato la mia negritudine”. L’ultima missione che doveva compiere la portò a
termine qualche settimana prima di morire: l’ultima stesura delle sue memorie “Days
of Grace”, fatica che gli occupò parte degli ultimi anni terreni.
La
memoria di Arthur Ashe rimane non solo nel famoso stadio degli US Open, ma
anche nelle fondazioni che portano il suo nome e che negli anni continuano le
sue battaglie: contro l’AIDS, contro le barriere razziali, per l’educazione
allo sport e dei ragazzi. E proprio a loro andranno alcune percentuali
dell’asta che si svolgerà e che avrà diversi cimeli assai interessanti
dell’archivio Arthur Ashe.
Come
i suoi diari dal 1972 al 1993; il passaporto del 1970, con il visto di entrata
ottenuto finalmente dal Sudafrica; diversi trofei tra cui quelli degli Slam e
della Davis (che capitanò alla vittoria), oltre a quelli giovanili; manoscritti
dei numerosi discorsi che tenne sui diritti civili, sull’AIDS e sul razzismo;
vestiti, uniformi di quand’era a West Point e divise della squadra di Davis.
Insieme a curiosità piuttosto atipiche come un dente del giudizio, polsini,
bastoni da passeggio, racchette, orsacchiotti, un’American express,
braccialetti, stivali di cuoio italiano, cravatte, immancabili occhiali, cappellini,
ciabatte, e la foto della sua prima ragazza (con dedica, da parte della
ragazza). Se volete dare una scorsa a questi cimeli li trovate anche sul sito
della fondazione a questo link: www.arthurashe.org
Vogliamo chiudere
questo breve omaggio al grande Arthur citando un suo desiderio: “Non voglio
venir ricordato per i miei successi sui campi da tennis”. Non ti preoccupare Arthur,
la tua memoria va ben al di là di palline gialle e racchette.
Pubblicato il 6 febbraio 2013 su Ubitennis.com e Vavel.it
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