mercoledì 6 febbraio 2013

Arthur Ashe, i ricordi di un campione gentiluomo


Vent’anni fa moriva Arthur Ashe, grandissimo campione e grandissimo uomo. Simbolo della riscossa degli uomini di colore nella società civile e impegnato combattente per i diritti civili in America e nel mondo. Primo nero a vincere tre tornei dello Slam, ha lasciato tantissimi souvenirs, che andranno all’asta per garantire alla sua fondazione nuovi fondi.




Il 6 febbraio 1993 ci lasciava a soli cinquant’anni Arthur Ashe.
Penso che pochi tra i nostri lettori non sappiano, almeno per sentito dire, chi fosse, e quale posto occupi nella Storia del Tennis questo gran giocatore, ma soprattutto questo grande e coraggioso Gentiluomo.
Nel ventesimo anniversario della sua morte, e nel quarantacinquesimo della storica vittoria agli US Open, vanno all’asta alcuni suoi oggetti e ricordi, e saranno battuti a Los Angeles da Nate D. Sanders Auctions. Questi oggetti acquistano valore non solo per l’effettiva importanza sportiva e tennistica, ma portano con loro tutta la forza e l’energia delle battaglie del giocatore afroamericano. Le sue sfide sportive, quelle sociali, quelle umane, quelle che hanno coinvolto tre decadi della società moderna. Pensare che abbia portato sulle sue spalle, con stile, eleganza e onore indiscussi, le bandiere del riscatto dei ragazzi di colore sui campi da tennis, i diritti degli stessi giocatori professionisti di tennis, le istanze degli ammalati di cuore e di AIDS a metà degli anni Ottanta e Novanta, l’impegno civile e sociale, ci rende consci del potere che può avere una racchetta da giuoco nelle mani di un uomo.
E pensare che da piccolo era piuttosto goffo ed esilino, e non proveniva certo da famiglia ricca. Anzi, sua madre morì quando egli aveva sette anni, e il padre era piuttosto rigoroso nella disciplina e faceva il tuttofare. Esplose nel tennis quando a vent’anni venne convocato, primo afroamericano, nella squadra di Davis, era il 1963. Grazie al tennis riuscì a uscire dai limitati, e razzisti, confini di Richmond, Virginia e diventare il primo vincitore degli US Open, l’unico di colore ancora al giorno d’oggi. Come rimane l’unico uomo di colore a vincere Australian Open (1970) e Wimbledon (1975). Solo Yannich Noah, vincendo il Roland Garros (1983), Slam sfuggito al grande Arthur anche per colpa del nostro Bertolucci, è l’unico altro tennista dalla pelle nera a trionfare a così alto livello tennistico.
Il computer non lo registrò mai al numero 1 delle classifiche del singolare, lo fece invece Harry Hopman, che lo considerava tale nel 1968. Fu invece il numero uno tra i gentleman dei courts, solo Ilie Nastase, nel Masters 1975 di Stoccolma, riuscì a portarlo all’esaurimento nervoso, e a quanto pensa Clerici, sull’orlo dell’omicidio. Certo anche Connors lo doveva urtare parecchio se disse: “Giuro che ogni volta che nello spogliatoio incontro Connors devo forzarmi per non dargli un pugno in bocca”.
Le sue lotte più famose da tennista e uomo di colore risalgono ai primi anni ’70, quando fu uno dei giocatori a spingere per la creazione dell’ATP, nel 1972. Sempre in quell’anno denunciò la politica dell’apartheid del governo sudafricano, visto che lo esclusero dal South African Open negandogli il visto d’entrata: lui sostenne sui giornali che il Sudafrica avrebbe dovuto venir escluso dal circuito tennistico mondiale. Venne addirittura arrestato due volte (nel 1985 e nel 1992) a causa della sua attività di supporto dei movimenti civili americani.
Si ritirò dal tennis nel 1980, ma tante partite lo aspettavano. Di quelle civili abbiamo già accennato, ma fu così forte da affrontare con combattività (quella che a volte gli mancò sui courts) le malattie che la vita gli riservò. Nel 1979 dovette infatti iniziare a fare i conti con frequenti attacchi cardiaci che lo costrinsero a ripetuti interventi chirurgici. Sfortunatamente, durante uno di questi, avvenuto nel 1988, una trasfusione di sangue era infetta del virus dell’HIV. Lui e la moglie tennero nascosta la notizia fino al 1992, quando le sue condizioni divennero seriamente critiche. Anche perché, come disse: “L'Aids non è stato il peso più assillante della mia esistenza, lo è stato la mia negritudine”. L’ultima missione che doveva compiere la portò a termine qualche settimana prima di morire: l’ultima stesura delle sue memorie “Days of Grace”, fatica che gli occupò parte degli ultimi anni terreni.
La memoria di Arthur Ashe rimane non solo nel famoso stadio degli US Open, ma anche nelle fondazioni che portano il suo nome e che negli anni continuano le sue battaglie: contro l’AIDS, contro le barriere razziali, per l’educazione allo sport e dei ragazzi. E proprio a loro andranno alcune percentuali dell’asta che si svolgerà e che avrà diversi cimeli assai interessanti dell’archivio Arthur Ashe.
Come i suoi diari dal 1972 al 1993; il passaporto del 1970, con il visto di entrata ottenuto finalmente dal Sudafrica; diversi trofei tra cui quelli degli Slam e della Davis (che capitanò alla vittoria), oltre a quelli giovanili; manoscritti dei numerosi discorsi che tenne sui diritti civili, sull’AIDS e sul razzismo; vestiti, uniformi di quand’era a West Point e divise della squadra di Davis. Insieme a curiosità piuttosto atipiche come un dente del giudizio, polsini, bastoni da passeggio, racchette, orsacchiotti, un’American express, braccialetti, stivali di cuoio italiano, cravatte, immancabili occhiali, cappellini, ciabatte, e la foto della sua prima ragazza (con dedica, da parte della ragazza). Se volete dare una scorsa a questi cimeli li trovate anche sul sito della fondazione a questo link: www.arthurashe.org
Vogliamo chiudere questo breve omaggio al grande Arthur citando un suo desiderio: “Non voglio venir ricordato per i miei successi sui campi da tennis”. Non ti preoccupare Arthur, la tua memoria va ben al di là di palline gialle e racchette.

Pubblicato il 6 febbraio 2013 su Ubitennis.com e Vavel.it