sabato 7 dicembre 2013

Il ring invisibile del giovane Cassius Clay

Il grande amico di Ubitennis, Rino Tommasi, presenta a Roma il libro “Il ring invisibile” di Alban Lefranc: una biografia immaginaria che scava nella gioventù del mito Cassius Clay, ovvero Muhammad Ali, ovvero The People’s Champion. Da dove gli viene tutta quella forza e quell’aura magica che ancora lo circonda?


..la copertina del Ring invisibile di Cassius Clay..


Domenica 8 dicembre, alle ore 11.00, all’interno della manifestazione Più libri più liberi a Roma, Rino Tommasi parteciperà alla presentazione del libro Il ring invisibile. L’autore è un francese, Alban Lefranc, che con questa opera ha vinto il premio Grand Prix Sport et Littérature, assegnato dall’Associazione scrittori sportivi francesi.

Gli estremi del libro:
Alban Lefranc, Il ring invisibile
Roma, 66thand2nd, 2013 – Attese, 22 - 143 p. - Eur 15,00
ISBN : 9788896538692

Con quest’ultima fatica letteraria, Alban Lefranc dà un’ulteriore prova della sua bravura in un genere nuovo. Il ring invisibile è, infatti, definito una biografia visionaria, immaginaria, della gioventù di Cassius Clay, il futuro Muhammad Ali: di certo l’icona sportiva per eccellenza, un personaggio che non ha bisogno di presentazioni; il simbolo che valica tutti i confini di genere e professioni.
Ma, secondo noi, è qualcosa di più. Non solo una biografia “possibile”, bensì un dialogo tra l’adolescente Cassius e il suo dèmone, nell’accezione greca del termine. Ovvero un essere che si pone a metà strada tra l’Umano e il Divino; insomma, il Genio che possiede il Grande Ali.
In questo libro tutto parte da una frase contenuta nell’autobiografia del pugile, in cui si racconta come il padre gli parlasse della morte di un giovane afroamericano, Emmett Till, e come questo episodio crescesse dentro di lui fino a diventare la forza del combattimento. Emmett Till era un adolescente nero, orrendamente torturato e brutalmente ucciso nell’agosto 1955 nella cittadina di Money, Mississippi. La sua colpa: aver guardato negli occhi una donna bianca. Grazie al coraggio della famiglia, in particolare della madre che volle una cerimonia funebre a bara scoperta – per far vedere come avevano ridotto suo figlio -, questo episodio divenne un evento chiave dell’affermazione del movimento per i diritti civili statunitense. Emmett e la sua tragica fine entrarono nel DNA della comunità afroamericana e del giovane Cassius, allora tredicenne; Alban Lefranc ne fa non solo la molla dello spirito indomito che lotta per l’affermazione dei diritti del suo popolo (Ali era detto anche: The People’s Champion), ma anche, appunto, vi vede il dèmone personale del futuro campione del mondo dei pesi massimi.
Emmett Till è il filo rosso, rosso di sangue, che attraversa questo libro. Che accompagna l’adolescente Cassius nelle sue paure e nelle sue affermazioni. Il futuro campione parla con Emmett come un profeta biblico può rivolgersi a un’anima dell’aldilà: “Ascolta, Emmett, ascolta la mia promessa: a te che non hai più una faccia, io darò la mia”.
Cassius Clay deve però affrontare anche altre prove per diventare Muhammad Ali. Deve affrontare i problemi di casa: il padre alcolizzato, pittore di insegne per negozi; il circuito della boxe e degli sciacalli che lo abitano; fare i conti con gli afroamericani che vedono in ogni pugile nero un’ispirazione, molto di più che uno sportivo da ammirare: come quel ragazzo che condannato a morte invocava l’idolo della boxe nera Joe Louis (“Save me Joe Louis, Save me Joe Louis”; ora questo racconto sembra sia solo un mito, ma un mito che ha avuto un peso incredibile nella nostra storia).
Cassius deve anche affrontare la paura degli aerei, ma ne deve prendere uno per venire a Roma a vincere la medaglia d’oro delle Olimpiadi nel 1960; e soprattutto deve imparare a relazionarsi con le donne.
È un romanzo di formazione vissuto nella testa di Cassius Clay, questo libro. E nella testa di Alban Lefranc, cioè di tutti noi che abbiamo in Muhammad Ali non solo il campione che volava leggero come una farfalla e pungeva come un’ape, ma anche uno dei più grandi simboli degli ultimi cento anni. A proposito: in questo libro Ali vola come una farfalla perché non permette a nessuno di toccargli il viso, dopo quello che è successo alla faccia di Emmett.
Per raggiungere tutto questo, però, Cassius Clay ha bisogno di costruirsi i propri confini spazio-temporali, definire riferimenti che lo rendono sicuro e invincibile: è così che nasce il Ring Invisibile; lasciamo ai lettori scoprire in effetti di cosa si tratta.


E siamo tutti molto curiosi di scoprire cosa dirà il nostro Rino Tommasi, presentando questo libro, di questo gigante del XX secolo, lui che è volato a Kinshasa nell’ottobre 1974 per raccontarci lo storico incontro con George Foreman; lui che lo ha incontrato più volte e conosce perfettamente il mondo della boxe; lui che però mette Muhammad Ali secondo nelle classifiche di tutti i tempi, dopo Joe Louis.

Pubblicato su Ubitennis il 07/12/2013

lunedì 18 novembre 2013

Marco Simoncelli: una leggenda entrata nella vita di tutti

Presentiamo il libro I circuiti celesti. Marco Simoncelli, la breve vita di un angelo centauro scritto da Emanuele Tonon, un autore molto intenso la cui vita è tuttora solcata dal mito del Sic. È una biografia atipica, il racconto di come Simoncelli attraversi molte vite lasciando sempre un’impronta profonda. A poco più di due anni dalla morte la sua presenza è ancora vivissima e incredibilmente copre un vasto spettro di sentimenti, emozioni e sensibilità.

..I circuiti celesti: Emanuele Tonon e Marco Simoncelli..

Gli estremi del libro:
Emanuele Tonon, I circuiti celesti. Marco Simoncelli, la breve vita di un angelo centauro
Roma, 66thand2nd, 2013 – Vite inattese, 3 - 120 p. - Eur 15,00
ISBN : 9788896538647

Ci sono libri che vanno letti con il cuore, con la pancia. Perché ci sono libri scritti con il cuore, con la pancia. Libri che fanno male; che entrano dentro le viscere e te le scavano cercandoti il cuore.
Proprio come la leggenda del Sic. Così bella e straziante da mozzare il fiato. A chi gli sta vicino, a chi lo ha conosciuto, e a chi lo ha amato anche se non lo ha mai incontrato di persona.
Il libro I circuiti celesti. Marco Simoncelli, la breve vita di un angelo centauro non è una biografia nel senso classico del termine. Non racconta la vita del centauro romagnolo nei dettagli storici, con aneddoti o sterili cronologie; non solo, almeno. Questo libro è la storia di un innamoramento. L’innamoramento tra l’autore, Emanuele Tonon, e Marco Simoncelli. E gli innamoramenti, quelli veri, vivono di pochi calcoli e di sterminata passione, quella passione per la vita che ispirava e ispira il talento di Simoncelli e ancora ci irradia tutti.
È il racconto di un incontro spirituale tra un ragazzo, pilota per vocazione, e un altro ragazzo in cerca di vocazione. Del Sic sappiamo molto: per quei pochi che, non conoscendola, ne volessero ripercorrere la parabola terrena, rimandiamo anche alla sua autobiografia, oppure ai moltissimi articoli scritti negli ultimi due anni, o ancora all’ultima puntata di Sfide a lui dedicata e andata in onda su Rai3 a un anno dalla tragica scomparsa.
Di Emanuele Tonon sappiamo invece che è nato a Napoli, ma ha passato infanzia e adolescenza a Cormòns, nel Collio friulano. Un’infanzia non certo felice, da quello che ci racconta, con la voglia di emergere e uscire dal clima socialmente oppressivo di una terra spesso dura anche con i suoi figli. Su questa zona italiana di confine è appena uscito anche un bel film - Zoran, il mio nipote scemo - in cui il problema dell’alcolismo si incrocia con i ristretti orizzonti sociali. Dopo le scuole, Tonon va a lavorare in una delle molte fabbriche del legno del goriziano, fino a quando decide di averne abbastanza dell’isolamento in cui è relegato e segue un percorso vocazionale in due monasteri; alla fine scopre che anche la vita religiosa non fa per lui e si lancia nella carriera di scrittore. La sua adolescenza prevede però anche l’innamoramento dei motori attraverso l’imitazione dei ragazzi più grandi. Passare i pomeriggi tra i Garelli, i Ciao e le marmitte da elaborare, provarli su una pista costruita dai ragazzi stessi, sbucciarsi lo sbucciabile è un percorso di iniziazione che porta all’innamoramento delle moto: lui ne traccia l’elogio della follia motoristica. Tonon inizia a seguire le corse, in televisione, senza poter andare a seguirle dal vivo, fino a quando arriva la grande occasione. A quel tempo assisteva un ragazzo, disabile in seguito a un incidente con lo scooter; con la famiglia del ragazzo scendono al Mugello per vedere le corse e là, in mezzo ai disabili ridotti sulle sedie a rotelle dai motori, ma nonostante ciò – o forse proprio per questo – appassionati veri del rombo celestiale, si rinforza il colpo di fulmine con un pilota. Un colpo di fulmine avvenuto via etere l’anno precedente, il 2008, quando un pilota, dalla moto più lenta, per togliere la scia a un suo inseguitore scarta a sinistra mettendolo in difficoltà e facendolo cadere. È un’azione al limite, è un’intuizione di riscossa per lo spettatore Tonon e per quel pilota: tale Marco Simoncelli da Coriano. Detto così sembra il nome di un eroe di un poema cavalleresco. E per lo scrittore lo è. Non sono forse questi sportivi gli eroi classici e medievali del nostro tempo? Non è forse la tuta un’armatura? Il casco una visiera – o una maschera – che catapulta questi esseri semidivini in un’altra dimensione? Non sono forse le gare i tornei di una volta? E di certo gli eroi omerici offrivano i Giochi alle divinità, in una celebrazione catartica di vita e di morte. Gli dèi assistevano dall’Olimpo e alle volte “coloro che gli dèi amano, chiamano a loro da giovani”. Tonon lo dice così: “Le stelle non si commuovono per chi parte primo e arriva primo ma per chi parte ultimo e arriva primo. Le stelle si commuovono anche se quell’ultimo non arriverà primo, se dovrà cedere, perché la meraviglia di quel gesto, quella gratuità assoluta, quell’assenza di calcolo, di guadagno, è il gesto artistico”.
L’autore ci fa coraggiosamente entrare nella sua intimità, in un parallelismo continuo tra il racconto della vita del Sic e la propria; tra gli incidenti di Marco e i suoi; tra la vita del Simoncelli pilota pubblico e quella del Simoncelli pilota privato, quel romagnolo che ha bisogno degli amici, della famiglia, delle carte, della piadina e di continui scherzi. Perché c’è chi nasce pilota, e allora, per Tonon, il Sic diventa un simbolo, un’epifania, un’apparizione, come lo è la foto iconica piazzata al centro del libro. Simoncelli che libra le sue ali, senza casco, in sella alla sua 58. Da lì si parte e si arriva, dai circuiti terrestri a quelli angelici.
Perché il Sic è da molto tempo leggenda – e non solo per Tonon -, è una leggenda viva che gareggia sui circuiti celesti dopo aver cavalcato quelli terrestri. Là si incontreranno lo scrittore e il pilota a discutere degli episodi primordiali, quelli dell’infanzia, che hanno segnato entrambi in due percorsi così distanti, così simili.

È un libro che va letto piano, perché fa dannatamente male. Sembra che l’autore abbia adottato la filosofia Sic: “sbattersene i coglioni”. Sbattersene i coglioni se ti danno una moto che va piano e concentrarsi per farla andare veloce, senza recriminare. Sbattersene i coglioni del politically correct degli scrittori, e usare un tono a tratti forte, crudo, però alternato alla poesia: la poesia dei collettori e delle emozioni, senza troppi calcoli, senza troppe reticenze.
È un elogio della follia dei motori e di quella passione, e la penna di Tonon segue vari registri. L’inizio è religioso, a tratti mistico, tanto da far temere di doversi preparare a una biografia agiografica o a una specie di retorica religiosa di quella fede che sono le moto. È però bravo, l’autore, a cercare quel “centimetro” di pista a cui Marco doveva puntare per sopperire alle sue carenze – o, meglio, sovrabbondanze – fisiche e per liberare il suo talento; allo stesso modo Tonon si destreggia sull’orlo della retorica e della poesia, senza però cadere nel mieloso o nella compassione di comodo. E ci riesce perché si percepisce che la sua è vera “compassione”, cioè che sente molto forte dentro di sé Marco e mette a nudo per noi i suoi sentimenti verso il Sic.
Per questo risultano cento pagine sofferte e dolorose, dense di vita, riso e pianto. Pagine da leggere senza fretta, quasi con venerazione, sicuramente con rispetto per queste due esistenze forti. Pagine che purtroppo hanno in appendice una cronologia della vita di Marco Simoncelli dannatamente corta.

Pubblicato su Ubitennis il 17 novembre 2013

mercoledì 30 ottobre 2013

Don Budge, von Cramm e Bill Tilden: un Terribile splendore

Terribile splendore è uno dei più bei libri di tennis usciti in Italia quest’anno. Racconta la storia dell’ultimo match della finale interzone tra il barone Gottfried von Cramm e Donald “Don” Budge, giocato sul Centre court di Wimbledon il 20 luglio 1937, con Big Bill Tilden in tribuna a tifare per i tedeschi. È soprattutto una perfetta metafora e un’eccellente trama per raccontarci la vita, la storia e la politica in Europa e negli States nei tardi anni Trenta.


..Donald Budge e Gottfried Von Cramm e la copertina di Terribile splendore..

Ci sono due libri di tennis che quest’anno - almeno finora – hanno colpito per la cura editoriale e per il loro contenuto. Uno si intitola semplicemente Tennis ed è edito da Adelphi, nel quale si raccolgono due scritti dell’americano John McPhee, editi negli States più di quarant’anni fa e solo quest’anno in prima edizione italiana. Il primo dei due è il racconto della semifinale di Forest Hills 1968 fra Arthur Ashe e Clark Graebner – il cui titolo è Livelli di gioco - narrato punto dopo punto con frequenti flashbacks psicologici e storici, un espediente che permette all’autore di raccontarci la storia dei due tennisti e l’America di quegli anni. Ovviamente su Arthur Ashe c’è da segnalare anche la bella biografia del nostro Alessandro Mastroluca, la cui recensione su Ubitennis potete trovare qui: http://www.ubitennis.com/sport/tennis/2013/05/29/895708-arthur_ashe_messaggio.shtml
L’altro libro si intitola Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi. L’autore è un altro americano, Marshall Jon Fisher, l’editore è 66thand2nd, casa editrice romana, che ne cura l’edizione italiana - l’originale uscì a New York nel 2009 -.
Terribile splendore ci racconta un’altra partita: l’ultima partita della finale interzone di Coppa Davis tra Germania e USA, giocata il 20 luglio 1937 sul centrale di Wimbledon tra il barone Gottfried von Cramm e Donald Budge. C’è però anche un altro protagonista seduto in tribuna: Bill Tilden.
Prima di entrare più nel dettaglio del libro vi diamo alcuni link per approfondire i personaggi:

Come molti di voi sanno, la partita era decisiva: chi tra USA e Germania avesse vinto la finale interzone avrebbe sfidato l’Inghilterra detentrice dell’Insalatiera, e avrebbe agilmente trionfato. L’Inghilterra, priva di Fred Perry passato al professionismo, era nettamente più debole delle altre due squadre. Inoltre, il computo totale del tie era di 2 a 2: Budge e von Cramm erano i rispettivi numeri uno e avevano agilmente superato i propri singolari, il combattuto doppio era però andato agli americani (Budge/Mako b. von Cramm/Henkel 4-6 7-5 8-6 6-4). Non bastasse ciò, i due si erano appena affrontati nella finale di Wimbledon, dove si era imposto l’americano al quinto, sul tedesco che arrivava alla terza finale consecutiva a Londra senza mai una vittoria – Perry e Budge erano troppo forti sull’erba per lui in quegli anni -. I due erano anche il numero uno e il numero due al mondo tra i dilettanti. Non bastasse ancora ciò a dare un denso e sinistro significato a un match di tennis, nel 1937 i venti di guerra spiravano molto forti, dalla Spagna della guerra civile e di Guernica (26 aprile 1937) e dalla Germania nazista. E ancora: se Budge poteva permettersi di pensare soltanto al lato sportivo della faccenda, von Cramm era ben conscio di dover vincere per non incorrere nella vendetta nazista.
Il libro si snoda in sei capitoli; uno per ognuno dei cinque set più uno intitolato Dopopartita. L’autore inizia da una pallina lanciata sopra la testa per la messa in gioco. È un’evidente citazione (sottolineata dallo stesso Fisher) di Livelli di gioco di McPhee di cui già abbiamo detto. E non è l’unico rimando, anzi. È proprio la struttura che è similare. Punto dopo punto, game dopo game, Fisher ci introduce nel clima di quegli anni e nelle vicende personali dei tre tennisti. Come tre? Ma se a tennis si gioca in due! E invece, in questo libro c’entra pure l’americano Big Bill Tilden, ormai quarantaquattrenne tennista globetrotter da esibizione, eppur ancora grandissimo sulle brevi distanze e in continua ed eterna polemica con la sua federazione, tanto da allenare ufficiosamente la Germania e quasi parteggiare per il barone.
È difficile toccare in questo breve spazio tutti i temi e gli spunti di questo libro scritto molto bene e molto ben documentato, frutto di diversi anni di ricerche storiche e di incontri con i personaggi che hanno vissuto quell’epoca. Si prova a fare una rapida carellata: l’omosessualità di Tilden e von Cramm; l’eleganza e la sportività del barone a confronto con quella di Tilden e Budge; Budge il proletario, e il suo meraviglioso tennis in fase di crescita di quegli anni; la politica e le sue intromissioni nel tennis; l’atmosfera di Wimbledon degli anni Trenta; le prime trasmissioni radio e la prima diretta della NBC; le prime riprese televisive; i tragici destini di von Cramm e Tilden, entrambi morti giovani ed entrambi condannati alla galera; il rapporto di von Cramm con il nazismo e il rapporto delle altre Nazioni con il nazismo stesso.
Poi c’è il famoso - o meglio, famigerato - episodio della telefonata di Hitler a von Cramm prima dell’entrata sul court, e tutte le versioni di questa storia che nel corso degli anni si sono accumulate. Incroci con la letteratura: in Lolita è Tilden, non a caso, che si cela dietro il personaggio di Ned Litam, che all’incontrario si legge Ma Tilden, uno degli pseudonimi letterari del tennista. Poi ci sono descrizioni degli allenamenti dei tennisti dell’epoca, racchette e palline, usanze e costumi, lo stile di gioco dei più grandi e le loro vite fuori dai campi: spese pazze e trasgressione per alcuni e morigeratezza e solo tennis per altri (vi ricorda qualcuno?).
Una delle poche critiche negative che si possono muovere a quest’opera è che alle volte è frustrante seguire un punteggio attraverso un libro (es: 15-0 con un ace, poi un dritto in rovescio porta il punteggio sul 15 pari, poi un servizio vincente, etc...). Forse non tanto in questo caso, perché l’autore usa intervallare molto bene quello che potrebbe essere un lungo elenco di diritti e rovesci con notazioni interessanti e variegate. Purtroppo altri esempi tratti da libri di tennis potrebbero essere citati a detrimento di questo modo di raccontare (basti pensare all’autobiografia di Nadal). Perciò alle volte l’occhio tende a scivolare su qualcuno di questi passaggi: di certo è un libro molto scorrevole e coinvolgente nel suo complesso, sia per chi già abbia un’idea del tennis dell’epoca e lo voglia approfondire, sia per chi ci si avvicini per la prima volta.
Allo stesso modo si potrebbe essere in disaccordo su alcune delle iperboli che qui, ma anche leggendo altrove, si sentono in campo tennistico tra giornalisti e scrittori. Già il sottotitolo (La più bella partita di tennis di tutti i tempi) può creare fenomeni di orticaria. Poi si parla di colpi bellissimi, mai visti, giocatori invincibili, e così via... Purtroppo non abbiamo testimonianza diretta e quindi bisogna accettare la versione dei cronisti dell’epoca. E infatti queste iperboli nascono proprio in quei decenni: si pensi all’altrettanto famoso match del secolo (tra Suzanne Lenglen e Helen Wills) oppure all’ormai vexata quaestio del GOAT, su cui meglio non entrare, sperando ormai che sia una questione abbandonata dai più, ma che vedeva all’epoca Bill Tilden come il principale indiziato. Superati questi piccoli ostacoli, ci si trova davanti davvero a una miniera storica di aneddoti e personaggi, in una veste editoriale davvero notevole.
Già, perché anche l’occhio bibliofilo vuole la sua parte. Ci si trova subito davanti a una copertina tutta bianca, in una bella carta ruvida ma dolce al tocco e un bel disegno in copertina che raffigura Cramm di spalle intento in una volée alta, lo si riconosce dai capelli e dalla cintura del suo club, il Rot-Weiss di Berlino, seconda palla in mano. Budge è pronto a ricevere e sfoderare il suo mitico rovescio, Tilden invece è seduto, ingrigito, sullo sfondo.
A metà libro ci sono poi undici pagine di foto in bianco e nero, sulla stessa bella carta del testo, il che non disturba affatto. Inoltre ci sono pochissimi refusi (se ne sono contati tre più un verbo rivedibile), e in quasi quattrocento pagine non è per niente male.
Si potrebbe discutere invece sulla scelte delle note così concepite. Infatti non ci sono note a piè di pagina, e nemmeno rimandi, ma ogni volta che c’è un virgolettato o qualche accenno a qualcosa di storico, si deve andare nella sezione delle note (che infatti è di 40 pagine, sintomo della notevole ricerca che ha fruttato questo lavoro), cercare la frase che potrebbe avere una nota, e quindi leggerla. Certo è un espediente comodo per autore ed editore e che ancora non ci era capitato di vedere, solamente ci si deve fare un po’ l’abitudine; e per il lettore a letto è un po’ complicato andare alla sezione note tre o quattro volte per pagina.

La tentazione di raccontarvi di più su ognuno di questi aspetti tennistici e storici è grande; serberemo a fatica il riserbo per non rovinare il piacere a chi di voi leggerà delle gesta di von Cramm, Budge e dei loro coetanei. Certo non vi diremo ora chi alla fine vincerà questo match che si protrasse al quinto per il visibilio degli spettatori... Sappiate, però, che se andrete a cercare il risultato su Wikipedia o altrove, siete decisamente entrati nell’aura del libro e siete pronti per averlo tra le mani.

Gli estremi del libro:
Marshall Jon Fisher, Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi.
Roma, 66thand2nd, 2013 – Vite inattese, 2 - 384 p. - Eur 18,00

ISBN : 9788896538562



Recensione pubblicata su Ubitennis il 30 ottobre 2013
http://www.ubitennis.com/sport/tennis/2013/10/30/974088-budge_cramm_tilden_terribile_splendore.shtml

lunedì 21 ottobre 2013

Curarsi con i libri

Due biblioterapie scritte per un concorso, curarsi con i libri, consistente nell'associare a una malattia una terapia a base di un libro.

Titoli alternativi: "Mamme, è arrivato il librino" e "La vita è quello che ti succede mentre sei occupato a farti i tuoi piani". 



..il gabbiano Jonathan Livingstone..
..un altro giro di giostra..

Acne juvenilis                                  
Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Livingstone

In caso di acne juvenilis dei vostri pargoli il rimedio più diretto, care mamme, è Il gabbiano Jonathan Livingstone.
È necessario possederne due copie. Una di queste può essere letta, direttamente dall’adolescente o, nei casi più disperati, da un genitore al proprio virgulto. L’altra copia va invece fatta a strisce oblunghe da applicare sul soggetto sofferente. Le strisce vanno tagliate seguendo il senso della scrittura e/o delle foto e apposte con delicatezza sulle tempie del giovane adulto. In questo modo, per osmosi e per contatto, il vero gabbiano Jonathan che vive in ognuno di noi verrà sollecitato ad emergere e crescere palesandosi nell’animo dell’adolescente, anche se questi ha ormai più di trent’anni.
Prima che questo rimedio risulti efficace è innanzitutto da accertare che il paziente abbiamo perlomeno sviluppato un minimo senso di curiosità verso il mondo, un quantomeno leggero bisogno di trasgredire le regole e lo status quo, e voglia di sfidare se stesso e la realtà che lo circonda.
Dopo sole poche sedute vedrete un mutamento all’apparenza preoccupante. Mancanza di appetito, leggera sfrontatezza, chiusura in se stessi e in camera. Ma dopo pochi giorni ancora allora vedrete spuntare sull’uscio della cucina un soggetto nuovo, rilucente di luce propria, dall’appetito robusto e con pelle rigenerata e pulita. Le controindicazioni non sono poche, la più grave delle quali sarà un’apparente asocialità dell’individuo, che però risulterà come nascosto e profondo amore per la vita e per l’umanità.
Altri preoccupanti sintomi saranno: abbandono totale o parziale della playstation, preoccupante frequentazione di una o più biblioteche, vaghezza e indissimulata assenza dalla realtà pratica e quotidiana. Può anche portare a una leggere trascuratezza dell’igiene personale – da tenere sotto controllo questo aspetto –, e un allontanamento, per nulla negativo, dal nido.
Nel caso di crescita conclamata di ali bianche o di qualsisiasi altro colore nella zona dorsale, o in altre zone del corpo, si prega di contattare il teologo di fiducia. In alcuni soggetti si è notata una insorgente predilezione per i fiori e gli aromi naturali, senza per questo poi tendessero a diventare fioristi.


Tanatofobia (paura della morte)
Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra

Piccini o adolescenti, adulti o vecchi che siamo, abbiamo paura della morte o, meglio, abbiamo paura della NOSTRA morte. Spesso solo della sofferenza che la precede, ancora più spesso della perdita di ciò che possediamo.
Uno degli ultimi rimedi in campo bibliomedico è Un altro giro di giostra, di Tiziano Terzani. Si consiglia l'assunzione in dosi minime giornaliere, possibilmente serali. Quando cala la sera e si fa sentire più forte l'imbrunire, allora è necessario ricorrere a questo potente rimedio. Lasciatelo però agire senza accelerarne e frenarne l’influenza. Paragonabile alla clownterapia, questa è una "curiosaterapia". Non perché sia una terapia curiosa, ma perché il rimedio è la curiosità stessa e consiste proprio in questo: essere curiosi.
Andare alla ricerca, scoprire, svelare noi stessi e il mondo che ci circonda fino all'ultimo momento, o almeno fino quando ci è dato… e oltre. Terzani si trovava sull'orlo dell'ultimo salto e ha trovato il rimedio all’horror vacui mortalis ridendo e sorridendo, prendendo in giro e prendendosi in giro. Chi legge questo libro va con Terzani alla scoperta non di un rimedio per il suo cancro, ma alla ricerca di un rimedio impossibile, quello contro la morte; trovandone uno inaspettato: il rimedio contro la paura della morte.
Con spirito giocoso e curioso infilatevi sotto le coperte d’inverno, accendete una lucina, create il silenzio attorno a voi e concedetevi poche righe di questo libro, un sorso alla volta di questa medicina dolce per una malattia comune e amara.
Noterete dei piccoli ma costanti miglioramenti d’umore e un impercettibile ma significativo cambiamento di prospettiva. Nel caso non foste soddisfatti dei risultati ottenuti si consiglia di combinare la lettura con una passeggiata a passo lento, il più possibile in mezzo alla natura. Se ancora non si notassero i risultati sperati si passi direttamente alla lettura delle due ultime frasi del libro: 
“Vivo ora, qui, con la sensazione che l'universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra.”

mercoledì 31 luglio 2013

..Ospitalieri inVolontari..


Secondo giorno di Ospitalieri volontari in quel di Valpromaro – Lucca. Paesino di 150 anime tra Camaiore (a 10 km) e Lucca (a 15 km) lungo la via Francigena.
Sulle guide non è indicato come punto di partenza né di arrivo. Troppo vicino (per un pellegrino) a Lucca e al Volto Santo, troppo vicino a Camaiore e Pietrasanta. Bene, non vogliamo iniziare la nostra prima esperienza con troppi pellegrini da accudire. Vogliamo una cosa intima. Da lume di candela, possibilmente chitarre e falò, grandi segreti svelati in confidenza - come accade tra sconosciuti - dopo un paio di bicchieri di vino.
Arriviamo perciò speranzosi, Sabrina ed io, carichi di voglia di essere Ospitalieri: mo’ ve lo facciamo vedere noi, come si fa gli Ospitalieri! Di più, arriviamo da pellegrini. Da Lucca a Valpromaro, solo 16 km, ma quello che ci serve per calarci nei personaggi. Indossiamo l’uniforme da pellegrino, poi la toglieremo per mettere quella di Ospitaliere. Già, ma che uniforme ha l’Ospitaliere?
Arriviamo e ci accolgono gli ospitalieri del turno prima, con quattro pellegrini. Tutto bene, tutto perfetto. Non vediamo l’ora di andare a dormire per risvegliarci, pulire tutto(!) e aspettare i NOSTRI pellegrini… Già, perché quelli mica erano i nostri: erano quelli del turno precedente!
Sveglia presto, pellegrini andati, si pulisce l’Hospital da cima a fondo. Si pulisce il pulito, ma non importa: de’, Noi Siamo gli Ospitalieri. E quindi ci mettiamo l’uniforme dell’ospitaliere: guanti in lattice, rigorosamente gialli, cencio alla cintola e mocho al posto del bordone – siamo un incrocio tra Madre Teresa e Cenerentola –. Tutto dovrà brillare e i pellegrini dovranno ringraziarci – possibilmente con lacrime agli occhi e lunghi abbracci – e noi dovremo faticare a restare umili.
Ore 10:00: Pulizie fatte, è l’ora della spesa. Comprare un po’ da ogni negozio autoctono (per non scontentare niuno), grandi sorrisi a tutti gli abitanti e fare di corsa: un pellegrino potrebbe fermarsi da un momento all’atro. La porta è rimasta aperta, ma non si sa mai, i pellegrini sono timidi: se non vedono nessuno magari manco s’affacciano. E non sia mai! Non vorremmo mai far loro perdere la meraviglia dell’incontro con due Ospitalieri come noi!
Ore 10:30: Siamo di nuovo nella Casa del Pellegino. Che si fa mentre si aspetta il Pellegrino? Pulito s’è pulito. Sabri fa l’insalata di orzo. Un chilo basterà? Certo, se arrivano torme di pellegrini affamati no, ma intanto qualcosa è pronto. Provviste ci sono. Il Diavolo in casa (la cassetta delle offerte libere) è stato generoso. Saremmo comunque pronti a tutto. Male che vada: patate e cipolle per tutti, ma condite con tanto affetto… Siamo pronti per elargire affetto di Ospitalieri: sotto al primo che tocca.
Ore 11:30: Iniziamo a fare i conti: dunque, se partono da Camaiore dovrebbero essere già passati (ci basterebbe qualcuno si fermasse per il caffè per iniziare); se partono da Lucca per Santiago pure. Vabbè: saranno in ritardo…
Ore 12:30: Io ho fame. Chiedo a Sabrina se possiamo mangiare: “NO! Se passa un pellegrino si mangia insieme!”.
Ore 13:30: Anche Sabri cede. Mangiamo. Preparo la tavola, due posti + un coperto. Non si sa mai arrivi qualcuno. Sai che figata se arriva e trova apparecchiato per lui e gli si dice con nonchalance: “Ti stavamo aspettando”. Mangiamo l’insalata di orzo pregustando la scena e intanto iniziamo a pensare alla cena e/o a cosa riservare ai nostri ospiti.
Ore 15:00: Piatti lavati, caffè bevuto – nonostante avessimo aspettato fino all’ultimo per accalappiare un pellegrino caffeinomane -, ci sediamo nella grande sala d’entrata, in faccia alla porta rigorosamente aperta. C’è un bel divano, faccio per sdraiarmici sopra: “NO! Sai che figura se ti vedono dormire sul divano! Non esiste!”. Mi tiro su docile, mi cascano le palpebre e mi ciondola la testa, mi siedo sulla panca di legno a leggere: comoda come il letto di un fachiro, ma almeno non mi addormento.
Ore 17:00: Sguardi preoccupati e tesi tra me e Sabrina. Ma dove sono i pellegrini? Gli ospitalieri che c’erano prima ne hanno sempre avuti! Io cerco di concentrarmi sul libro che sto leggendo senza successo, Sabrina scivola da una stanza all’altra. Sposta di mezzo centimetro a destra, o a sinistra – in base alla luce – il vaso di fiori.
Ore 17:30: Fumiamo un’altra sigaretta.
Ore 18:00: Inizia a piovere. Doppiamente contenti: i pellegrini dovranno fermarsi, se passano nelle vicinanze. E in più non devo bagnare le rose sul retro: raccomandazione principe dei custodi del luogo.
Ore 19:30: Calma piatta. Iniziamo a sospettare che oggi niente pellegrini… Ci consoliamo pensando che domani sarà ancora più bello averne, no?
Ore 20:30: Cena a base di insalata di orzo.
Ore 22:00: Nanna: domani sveglia presto: se i pellegrini partono da Camaiore, alle 7.30/8.00 son qui.
Ore 23:30: Ancora svegli: orecchio teso nel caso qualche pellegrino bussasse e dovessimo correre giù ad aprire la porta.

Terzo giorno da Ospitalieri: è sicuramente il giorno del primo pellegrino!
Ore 6:30: Suona la sveglia, giù dal letto, caffettiere pronte, marmellate aperte. Il primo pellegrino troverà tutto a sua disposizione, come i rifornimenti ai lati dei percorsi della maratona.
Ore 11:00: Nessun pellegrino all’orizzonte. Nel frattempo ho spazzato tutte le cicche in strada da qua alla fine del paese (nei due sensi), e Sabrina sforna torte alle mele come fosse una pasticciera svizzera al lunedì mattina.
Ore 13:00: Dopo due ore ci diamo il cambio di postazioni. Postazioni che sono: io seduto fuori dalla porta in atteggiamento a mezzo tra la piccola vedetta lombarda e il Tenente Drogo, Sabri seduta vicina al telefono che ripassa le istruzioni che ci hanno lasciato e a me sembra tanto un’adolescente di venticinque anni fa, accanto al telefono che non suona mai – un po’ Il tempo delle mele, se vogliamo -.
Ore 14:00: Bandiera bianca: pranziamo con dell’ottima insalata di orzo. La cui ciotola è oramai a metà, nonostante Sabri giuri e spergiuri di non aver affatto ecceduto nelle previsioni.
Ore 15:00: Abbozzo una pennichella subito ripreso dalla solerte compagna ospitaliera che mi mette in mano un pennello, olio di semi vari e mi chiede se per caso non voglio oliare qualche cardine che cigola.
Ore 16:00: Dopo aver oliato financo la porta della cuccia del cane della vicina e la voliera comunale alzo gli occhi e noto una rondine sotto il tetto. Non è primavera: che sia la reincarnazione di qualche pellegrino? In tal caso è il primo e unico viandante che approfitta del nostro rifugio.
Ore 17:00: Meritata merenda: eccellente scodella di insalata di orzo seduti sugli scalini della casa, sguardo perso nell’orizzonte vuoto: horror vacui peregrinorum.
Ore 17:30: Passa il pulmino dei gelati: unica attrattiva settimanale del paese. L’adolescente della porta accanto sfreccia e ritorna con un cono gigante e mi sogghigna, mentre io gusto impassibile l’ultima cucchiaiata di orzo, conscio della superiorità morale dell’Ospitaliere, che non può abbandonare la postazione divinamente assegnata et non pote cedere alle tentazioni della gola.
Ore 19:00: Iniziamo a dubitare del nostro karma. Sabri in particolare dubita del mio, io pure: dopo avermi cosparso il capo di cenere di incenso tibetano raccolto in una delle conchiglie del suo tredicesimo Cammino di Santiago, mi percuote entrambe le tibie (peroni inclusi) con un bordone in loco lasciato da un pellegrino svizzero nel ’45. Mentre cerca di farmi ingoiare un cappello di un romeo francese suona il venerando telefono delle prenotazioni. Salvato in extremis da una telefonata… della su’ mamma… Per mezz’ora sono dunque libero e faccio l’ennesimo giro del paese: minimo sei case su 150 abitanti hanno fuori appeso il cartello Vendesi, Affittasi, Locasi, Regalasi… I coyotes ululano alla luna nascente e io ritorno per cena. Insalata di orzo.

Quarto giorno di Ospitalieri volontari.
Ore 6:00: Suona la sveglia. Ripuliamo tutto. Sabri inizia, con tanto di megafono, le litanie dell’Invito del Pellegrino sul punto più alto della canonica attualmente Casa del Pellegrino: l’effetto muezzin è suggestivo e commovente. Il vicino è d’accordo fino a un certo punto.
Ore 7:00: Con il ventilatore a palla cerco di mandare fuori dalla finestra il profumo del caffè che sto mettendo su. Al terzo termos riempito iniziamo di nuovo a dare segni di cedimento e di qualche tic decisamente imbarazzante.
Ore 9:30: Con il timbro dell’ostello abbiamo istoriato le strisce bianche dell’asfalto da Montemagno a Valpromaro. L’effetto Giro d’Italia della via Francigena è a tratti scenografico.
Ore 11:00: Sabri è in cucina, pulisce con uno stuzzicadenti i buchi delle prese elettriche, io sul tetto tento di issare uno spinnaker con i colori della Francigena, del Papa, della bandiera arcobaleno della Pace, quelli del Tibet e come stemma ci sono la conchiglia, la croce, la palma, lo zio Sam, l’Unicorno e sullo sfondo il Vaticano, la Mecca, il Muro del Pianto e una statua di Lenin che abbraccia Mao.
Da lontano un puntino si avvicina claudicante. Inizio a percepire l’inconfondibile afrore pellegrino della stagione estiva, quando il pellegrino va in muta.
Triplo carpiato e sono in salotto, con Sabri stendiamo il tappeto rosso (e bianco) tessuto iersera a filigrana grossa, disponiamo le frecce deviatorie e innalziamo le barricate tipo ’68: One Way Only, unica via: il Nostro Ospitale.
Il subdolo pellegrino tenta di divincolarsi dalle nostre grinfie ma non c’è nulla da fare. Il malcapitato viene immesso a forza nella Casa del Pellegrino (del Pellegrino e quindi: DEVE entrarci) e legate le estremità inferiori alla seggiola, viene cortesemente invitato a pranzo.
Sabrina: “Enos vai pure a prendere l’insalata di orzo”.

Enos sospettoso si avvicina felpato al frigorifero e… “NOOOOOOOO, è finita l’insalata di orzo”.



mercoledì 24 luglio 2013

In Tibet con Flaviano Bianchini

Recensiamo uno dei libri che più ci hanno entusiasmato recentemente. Un viaggio portati nello zaino di un viaggiatore dagli occhi liberi e dal passo appassionato, allo scoperta clandestina del Tibet, ma, soprattutto, di un modo di viaggiare.




Oltre che essere un bel libro, In Tibet. Un viaggio clandestino di Flaviano Bianchini, è una miniera di spunti di riflessione sulla viandanza e sul movimento lento.
Non solo - anzi, non soprattutto – per chi non ha gustato le gioie e i dolori dell’andar piano, ma quasi con precedenza a chi è già “iniziato” alla logica dell’andare  a passo d’Uomo.
Flaviano Bianchini ci porta clandestinamente con sé in Tibet. Da anni si occupa di educazione ambientale e alla difesa dei diritti umani e di quelli della natura. Ha lavorato molto in America Latina e poi con organizzazioni come Amnesty International, Peacelink, e ora con Source International. Dall’America Latina è stato anche espulso, e quindi è pure un esperto di clandestinità. Se vi uniamo anche la passione per la montagna e l’abilità di viaggiatore “lento” (e di scrittore), è facile far intuire il fascino che questo libro emana.
Innanzitutto è scorrevole e semplice senza essere semplicistico, ma, ancor di più, ti aggancia e non ti molla fino all’ultima riga, come un film avvincente, come un Cammino intrapreso.
Ma dove ci porta davvero l’Autore? Non solo in Tibet, ma bensì in pellegrinaggio in Tibet. Un pellegrinaggio sui generis, poiché va a visitare i luoghi di Palden Gyatso, monaco tibetano per 33 anni incarcerato nelle prigioni cinesi e per motivi politici indesiderato in casa sua, con lo scopo di incontrarli e in seguito ritornare per raccontargli com’è ora il Tibet e il suo monastero.
Succede dunque che Bianchini debba entrare in Tibet da clandestino, perché è impossibile entrarci da viaggiatore curioso, solo da turista al seguito dei viaggi organizzati da compagnie cinesi autorizzate dal governo; e allora ecco che un italiano si fa clandestino (cosa rara al giorno d’oggi, sebbene sarebbe esperienza consigliabile per molti di noi, per provarne il significato sulla nostra pelle).
Anche perché il nostro viaggiatore non va direttamente alla meta, bensì dal monte Kailash a Lhasa, due luoghi sommamente sacri e venerati, e ci va a piedi, per 1.500 Km, da ovest verso est, attraversando il Tibet in compagnia di pellegrini, mercanti e nomadi. A piedi proprio come si muovono i tibetani. A piedi per entrare nello Spirito del Tibet, nella sua Storia passata e presenta. A piedi perché, citandolo: «Il viaggio a piedi è l’unico tipo di viaggio che consente di vedere nuove terre ma anche, come diceva Proust, di vedere con nuovi occhi».
Il racconto si dipana così tra incontri, fatti storici e leggendari, meraviglie naturali e aneddoti che ci guidano a conoscere un po’ più a fondo una terra e un popolo sacrificati dalle potenze mondiali sull’altare dei buoni rapporti con i governi cinesi.
Per fortuna l’Autore è anche critico, quando sente di dover esserlo, con i tibetani stessi. Non c’è traccia di falsa o costruita compassione che alle volte ci porta a causare addirittura maggiori guai alle popolazioni che, dall’alto della nostra supposta superiorità, noi Occidentali vorremmo “aiutare”, ma… a modo nostro!
E così questo libro è anche un ottimo strumento di indagine antropologica e storica, ma, oltre a ciò, a noi interessa un po’ di più come alla fine – e durante – la lettura sentiamo come un impulso a metterci in cammino, e la meta, davvero, quasi non importa.
A proposito di cammino, è stato illuminante leggere l’episodio di come il nostro viaggiatore si sia trovato in imbarazzo due volte per il suo bagaglio. Alla partenza, perché tutti reputavano il suo bagaglio troppo piccolo; in Tibet, perché i tibetani lo deridevano del suo zaino troppo pesante e pieno di cose inutili. E non è solo questione di punti di vista, magari da un mondo più povero economicamente e quindi abituato all’essenziale – anzi, all’indispensabile -, ma altresì di una differente concezione stessa del viaggiare: quando il viaggio a piedi è connaturato all’esistenza, basta un mantello che faccia anche da sacco per trasportare tè e burro di yak, il resto non solo è inutile, ma addirittura dannoso.
Per Bianchini l’odore del tè al burro di yak è l’odore del Tibet, e ce lo fa percepire anche attraverso le bellissime fotografie che impreziosiscono questo volume che ha ottenuto una meritatissima menzione speciale al Premio Chatwin “Viaggi di carta” 2010 come miglior libro di viaggio dell’anno.
Vi si perdona senz’altro, dunque, qualche piccolo refuso editoriale, vista anche la bibliografia davvero ben commentata e indispensabile, che va da Marco Polo a Tiziano Terzani. E proprio la voce di Terzani sembra risuonare nei toni a volte umoristici, a volte disorientati o disincantati, e nella fine attenzione al dettaglio sociale esemplificato da gustosi aneddoti che nascono dall’esperienza diretta. Da leggere, per fare un solo esempio, il racconto della visita ai piedi dell’Everest, tra occidentali che fanno letteralmente la fila per salire in vetta in comodità, e i portatori nepalesi che dormono all’addiaccio; ecco, lui si sente più solidale con quest’ultimi.
E noi con lui.
Anche perché, se per Flaviano Bianchini il viaggiare a piedi è ormai Il Viaggiare, a noi ci ha regalato la voglia di scoprire di più sul Tibet, ma, soprattutto, di indossare subito gli occhiali speciali del movimento lento.

Gli estremi del libro:
Flaviano Bianchini,
In Tibet. Un viaggio clandestino,
Pisa, BFS (A margine; 3), 2009, 201 p., ISBN 9788889413395, 18 euro.

giovedì 13 giugno 2013

..videodenuncia: palazzo vecchio in fumo..

La mala-gestione dei beni comuni si vede dalle piccole cose. Pubblichiamo un video in cui si può notare come a Palazzo Vecchio, nel bel corridoio che dà sul balcone che s'affaccia in Piazza della Signoria, ci sia la cattiva abitudine di fumare. Il soffitto in legno e le pareti affrescate non crediamo ne giovino particolarmente.


Per altri lavori mi trovavo in Palazzo Vecchio.
Tra il Salone de' Dugento e gli uffici comunali, c'è un bel, seppur angusto, corridoio che s'affaccia, dopo una diecina di scalini, su Piazza della Signoria. È il balcone che dalla piazza è ben riconoscibile perché ci sono le bandiere della città di Firenze, dell'Unione Europea e il tricolore italiano.


È un corridoietto dalle pareti dipinte in blu e rosso con motivi geometrici e floreali, mentre il soffitto è ligneo, dipinto anch’esso con motivi che si riferiscono alla volta celeste.
Non è parte del percorso museale, vi accedono solo i dipendenti comunali, tra cui gli assessori e i consiglieri, vista la vicinanza con il Salone de’ Dugento. 
È per questo che chi ci lavora lo utilizza come saletta da fumo? Sebbene la porta-finestra che dà sulla piazza sia sempre spalancata (anche d’inverno), è un buon motivo utilizzarla come refugium fumatorum? Ovviamente per non scendere giù a fumare.
Non è questione di moralismo, ritengo solo sia indicativo della mentalità che ancora, ahinoi, permea la nostra società.
Al di là del puzzo, della scarsa igiene e della scarsa salute che il fumo porta, al di là del fatto che mi risulta sia vietato fumare all’interno di un locale pubblico - e il palazzo comunale è per definizione un locale pubblico, quantomeno è un locale comune -, è sconcertante lo scarso rispetto per un luogo così simbolico, e proprio da parte di chi dovrebbe prendersene cura.
Sarò naïf, ma ho deciso che mi devo indignare di più.
Qua sotto trovate la foto e il video (purtroppo di scarsa qualità). 




martedì 11 giugno 2013

..preghierina del disoccupato..

Lavoro nostro, che sei nei cieli,
sia palesato finalmente il tuo nome,
venga il tuo stipendio,
sia firmata la lettera d'assunzione, 
come in originale così in copia.
Dacci oggi il nostro bonifico mensile,
rimetti a noi almeno il sussidio di disoccupazione,
come noi paghiamo l'IVA,
e non ci indurre in depressione,
ma liberaci dallo spleen esistenziale.



lunedì 3 giugno 2013

Elliot Erwitt


..se io mi ritrovassi a New York,



e volessi fare un salto in Europa, dove mi ritroverei?



..a Roma, kaputt mundi..



Elliott Erwitt, al secolo Elio Romano Erwitz (Parigi, 26 luglio 1928), è un fotografo francese specializzato in fotografia pubblicitaria e documentaria, noto per i suoi scatti in bianco e nero che ritraggono situazioni ironiche ed assurde di tutti i giorni. Wikipedia dixit.