sabato 22 dicembre 2012

Caro Babbo Natale spa..




Caro B.N.,
se in tua facoltà, quest'anno vorrei:

- la pace nel mondo (così sai quanto sono buono)
- che nel sottopasso delle Cure si possa andare in bici
- una sigaretta che non finisce mai (e che non faccia male)
- insonorizzazione completa di casa
- treni senza bambini e bambini senza mamme isteriche (da sostituire con mamme ad hoc: carine, buone, con minigonna, che dice va di moda)
- non ti chiedo un lavoro, mi bastano i soldi, poi il tempo me lo gestisco io, 'nun te preoccupà
- ok per la temperatura di questo inverno, che duri però fino al 32 luglio, compreso
- per quanto riguarda il panettone, tienti il burro e la pasta: mi bastano i candiditi: e anche i candidati, se puoi provvedere gentilmente, ti manderò richieste a parte per quelli
- caffé innocui con chiacchere asettiche

Se non ce la fai, un libro andrà bene: sopra le 100 pagine, così mi dura un po'; evitare sfumature, ché il mondo è bianco e nero, si sa.

Ti ringrazio inoltre per aver convinto i Maya che: basta supercazzole, please.

Tuo,
con stima,
E. M.

venerdì 14 dicembre 2012

Mi ritorni in mente: Luciano Bianciardi



Nasceva a Grosseto, novant'anni fa, Luciano Bianciardi.
In pochi si ricordano di questa straordinaria figura di intellettuale: traduttore, scrittore, giornalista. Perché ricordarlo in questo spazio? Perché negli ultimi anni della sua vita, per sbarcare il lunario, collaborò al Guerin Sportivo diretto da Gianni Brera con una rubrica al fulmicotone in cui rispondeva ai quesiti dei lettori; quesiti che spaziavano dal calcio, ovviamente, fino alla politica, alla storia, alla sociologia, al costume.

Anarchico dalla rigorosa morale (si definiva anarchico nella misura in cui l'anarchia è partecipazione libera, e non coatta, alla società), fu lucido analista dell'Italia e profetico cantore del futuro della società italiana. Cosa ne pensate di queste sue righe, "Se vogliamo che le cose cambino, occorre occupare le banche e far saltare la televisione. Non c'è altra possibile soluzione rivoluzionaria"?

Il suo romanzo più conosciuto, La vita agra (1962), fu un vero e proprio caso letterario. Metteva allo scoperto ipocrisie borghesi e meccanismi della società italiana, il tutto con ironia e sarcasmo agri e geniali. Ne fu tratto anche un film, con Ugo Tognazzi.

Avvicinarsi a questa poliedrica figura da un lato che sembrerebbe minore, cioè dagli interventi sul calcio, potrebbe risultare quasi eretico, e invece è un punto di vista privilegiato. Parlando all'uomo della strada, Bianciardi era chiaro, diretto, e soprattutto molto divertente. Ma ancora più importante per noi, si dimostra tuttora moderno. Aprendo il libro che raccoglie le sue risposte sul Guerin Sportivo, Il fuorigioco mi sta antipatico, si può tranquillamente fare questo gioco: prendere i nomi degli sportivi dell'epoca (Rivera, Schiaffino, Riva, Herrera), ma anche dei politici o attori, cambiarli con quelli attuali (Balottelli, Mourinho, Berlusconi) per scoprire due cose, la prima che ben poco è cambiato a queste latitudini, e la seconda che la sua analisi è, appunto, lucida e trascende il contesto storico in cui operava.

Facciamo due esempi. Riva e Rivera (e anche Herrera) in quegli anni vivevano storie d'amore piuttosto complicate, il pubblico morbosamente ci si attaccava e dava la colpa a quello per il loro calo di rendimento, Bianciardi sosteneva invece che si dovesse lasciarli in pace nella loro sfera privata e giudicarli solo per l'operato in campo. Sostituite il nome "Riva" con "Balotelli" e si avrà l'impressione che Luciano parli a noi.

Un lettore poi si scandalizzava perché i giocatori guadagnavano più dei ministri, e lo riteneva ingiusto. Bianciardi faceva notare che così funziona la legge di mercato, legge che ci siamo scelti. E chiosava facendo notare come le prostitute (escort, pardon) guadagnassero più di sua moglie, era giusto? Come si può vedere, i temi e le tematiche sono ben poco cambiati in quasi quarant'anni.

Bianciardi morì a soli 49 anni, minato dall'alcol in cui si rifugiò, animo forse troppo sensibile alle idiosincrasie dell'Italia del boom economico. Come tutti i profeti, vedeva la realtà e ne comprendeva non solo il presente, ma anche lo stridente futuro che si preannunciava.Lo ricordiamo con due citazioni che ci rendano lo stile, le idee, e l'ingegno di un intellettuale tra i più grandi, e poco conosciuti, degli anni '60:

Il fuorigioco mi sta antipatico, come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio.

Il divorzio, di qualunque tipo, è un rattoppo su qualcosa di finito male. La battaglia per il divorzio è una battaglia di retrovia. Occorre battersi contro il matrimonio.

 


venerdì 7 dicembre 2012

Mi ritorni in mente: Meazza e Zamora, una cavalleresca rivalità


 
Ci sono rivalità passate alla storia che vivono di antitesi.

Platone e Aristotele, raffigurati da Raffaello nelle Stanze Vaticane: uno indica il mondo delle Idee, l'altro ha i piedi ben piantati in terra.

Lo stesso Raffaello e Michelangelo: uno a raffigurare la grazia delle forme, l'altro la tensione spirituale che si esplicita nella tensione dei corpi.

Nello sport, nel tennis: Borg e McEnroe, come Nadal e Federer.

Ma cosa c'è di più antitetico nel calcio se non l'opposizione tra centravanti e portiere? Tra chi deve segnare il punto per la propria squadra, e chi lo deve sventare. Uno a offendere, l'altro a difendere.

Trapassano la storia del pallone i miti di Giuseppe Meazza e Ricardo Zamora, legati ancora nel nostro immaginario da una nobile contesa.

Per il Balilla, così era chiamato il milanese "Peppin" Meazza, il portierone spagnolo di Barcellona fu un rimpianto e uno spauracchio. Proprio per lui che era l'incubo di tutti gli altri numeri uno, le manone del catalano diventavano enormi, gigantesche tenaglie para tutto: ovviamente senza guanti. Ricardo, il basco o una coppola calati in testa a dettare moda, è di diritto nella storia del calcio spagnolo e mondiale. Da capitano vinse con le Furie rosse, prima nazionale di sempre, sul suolo inglese, giocando con una frattura allo sterno. Non per nulla lo chiamavano "El Divino". E ancora oggi un trofeo porta il suo nome, assegnato al portiere che subisce meno reti nel campionato iberico.

Meazza, invece, è ancora considerato da alcuni il più forte giocatore italiano di tutti i tempi. Brera e Prisco così lo pensavano. Geniale, imprevedibile, spietato davanti alla porta inventò il "gol a invito": scartata tutta la difesa avversaria invitava il portiere all'uscita, e allora sceglieva se beffarlo con un tiro a sorpresa o dribblare anche lui per entrare assieme al pallone in porta.

Oltre a partite celebri come Ungheria-Italia 0-5 o Inghilterra-Italia 3-2, Meazza fu protagonista anche nella duplice vittoria dei Mondiali 1934 e 1938. Vittorie discusse, come quel quarto di finale a Firenze: Italia-Spagna che dopo 120 minuti finisce 1-1, Zamora in porta a cui si segnò solo con una scorrettezza, Meazza all'asciutto. Replica della partita il giorno successivo: El Divino non si presenta, Meazza segna e regala alla Nazionale le semifinali. Sarà un caso?

Alla fine il Balilla Peppin riuscirà a infilare un pallone all'angolino della porta di Zamora, un tiro da 15 metri in un'amichevole di club, nel giardino di casa sua, l'Arena di Milano. E Ricardo Zamora uscì dalla sua area, territorio off limits per chiunque, e andò a stringere la mano al cannoniere. Quando due rivalità sono così grandi, non ci sono nemici, ma solo fieri avversari.
 
 
Pubblicato su Datasport e Italiagermania4-3.com il 7 dicembre 2012
http://datasport.it/calcio/2012-2013/mi-ritorni-in-mente-meazza-zamora.htm
e

  
..Raffaello Sanzio da Urbino: disegno di testa di Apostolo, appena battuta all'asta per 37 milioni..
 

venerdì 30 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Tanti auguri Udinese

..finale Coppa Italia 1922: Udinese - Vado Ligure..


Ricorre oggi il 116° compleanno di una squadra di serie A. Il 30 novembre 1896 nasceva, infatti, l'Udinese.Nel fare gli auguri alla squadra e ai tifosi friulani vediamo l'occasione per ricordare una tipica parabola delle squadre italiane (magari di provincia) e raccontare così, per sommi capi, una storia: il calcio in Italia e l'Italia con il calcio.
All'inizio il calcio non è il Calcio. Alla fine dell'Ottocento nascono dei gruppi sportivi, magari d'influenze inglesi, che tra le varie discipline prevedono anche il football. A Genova come a Milano le società gli affiancano, ad esempio, il cricket. Curioso il fatto che anche per un altro sport ora molto popolare, il tennis, la culla sia stata una disciplina così tipicamente britannica, oltre al cricket anche il croquet, o talvolta il golf (si pensi a Wimbledon, torneo organizzato ancora da un club che si chiama All England Lawn Tennis and Croquet Club).
A Udine, invece, il calcio si sviluppa all'interno di una polisportiva che predilige principalmente la scherma e la ginnastica. Un gruppetto gioca anche a "calcio ginnastico", una variante italiana, simile però al football inglese: è un periodo di regole non ancora normalizzate.
Bisogna aspettare il 1911 per avere un'associazione calcistica indipendente nel capoluogo friulano. Negli stessi anni, a Milano nasce l'Inter, e gioca già nell'allora serie A. L'Udinese no, parte dalle serie minori e pian piano, da brava formichina di provincia, si conquista l'accesso alla massima serie. Non sono anni semplici, ci sono due guerre di mezzo, il Friuli è zona di frontiera e più di altre regioni soffre gli eventi bellici, spesso è necessario ripianare debiti e buchi di bilancio, e come vedremo sarà quasi una costante della sua storia, almeno fino all'ultimo decennio del secolo scorso.
Anche il secondo dopoguerra è largamente pioneristico per le squadre non di primissima fascia, non ci sono Moratti a Udine, non sbarca Schiaffino o il tricefalo Gre-No-Li, eppure, tra alti e bassi (si legga serie A, B, e anche C), i bianconeri arrivano al secondo posto finale nel 1954-1955, dietro al Milan. Pure all'epoca ci sono gli illeciti sportivi, l'Udinese ritorna in B e si barcamenerà tra le serie principali e quelle cadette fino a ottenere un primato: è la prima squadra a venir sponsorizzata, seppur camuffatamente, nel 1978, dai gelati Sanson, ed è scandalo, ma anche segno precursore dei tempi a venire.
Parallelamente si nota un fenomeno di costume, a Udine, ma anche ad Avellino o in altre realtà, la squadra diventa vessillo di una regione e di una popolazione.
Senza arrivare a fenomeni tipo Barcellona (simbolo della catalanità), anche in Friuli, complice il boom economico e la ricostruzione post terremoto del 1976, il calcio rivela una forte identificazione tra la gente e la bandiera sportiva, manifestandosi nel suo apice con lo slogan "o Zico o Austria".
I primi anni '80 sono l'inizio di una stagione eccitante per i tifosi, la proprietà passa al patron della Zanussi, Lamberto Mazza, che abitua i fans a grosse spese (Zico, Virdis, Mauro, Causio, Edinho), poi per ripianare debiti subentra l'attuale deus ex machina, Giampaolo Pozzo. Ma tra retrocessioni per demeriti sportivi e altre per illeciti vari, bisogna aspettare ancora un po' prima dell'esplosione definitiva della società, che si compie a partire dagli anni '90 con una nuova strategia rivelatasi alla fine vincente, seppur rischiosa: scovare nuovi talenti, farli maturare, e infine offrirli alle grandi squadre. Semplice a dirsi, difficile a farsi, ma con questa proprietà l'Udinese ha scoperto un uovo di Colombo che è diventato gallina dalle uova d'oro. Non mancano flessioni, come quella che si vive quest'anno, ma sicuramente è l'unica via che al giorno d'oggi possono praticare le squadre di provincia che non hanno un bacino di tifosi che competano con quelli delle grandi città come Roma, Milano, Torino e Napoli (per tacere delle squadre inglesi). Salvare il bilancio, offrire buon calcio e arrivare in Europa sono comunque grossi regali fatti agli aficionados.
Auguri Udinese, e un augurio affinchè altre squadre possano trovare esercizi così virtuosi: potrebbe essere l'unica strada per salvare il calcio italiano, soprattutto quello di provincia.
 
Pubblicato su Datasport.it e Italiagermania4-3.com il 30 novembre 2012
http://datasport.it/attualita/2012/approfondimenti/mi-ritorni-in-mente-tanti-auguri-udinese-pozzo-friuli.htm
 

venerdì 23 novembre 2012

Mi ritorni in mente: ..o tempora, o petroldollares..

..il famoso O Zico O Austria..

Quasi trent'anni fa tutti i tifosi del calcio italiano salutavano con indistinta trepidazione l'arrivo di Arthur Antunes Coimbra, meglio noto come Zico (tradotto in: furetto). In Friuli la trepidazione, forse per la prima e ultima volta a tali latitudini, raggiungeva vette di fanatismo. Portato dal recentemente scomparso presidente Mazza, fu la telenovela del calciomercato 1983. Altro che Mister X...
Ma come mai Zico scelse la serie A e soprattutto scelse Udine?Reduce dalla vittoria al Mondiale, l'Italia era l'Eldorado per i giocatori dell'epoca: non c'erano ancora gli emiri a far scappare i campioni dalla penisola. Bastava il prestigio della serie A per far scegliere a un campionissimo brasiliano anche un posto in una squadra di seconda fascia italica.
Ora dall'Italia i fuoriclasse se ne vanno e entrano solo belle speranze, peraltro pagate fior di quattrini per poi passare stagioni in panchina (vero Edu Vargas, Maicosuel e compagnia bella?).
Non è il momento dei rimpianti, ma ci si può permettere un: ridateci i sogni che i campioni regalano a forza di punizioni e passaggi filtranti. Altrimenti meglio i giovani nostrani, anche se poi saranno proprio loro a lasciarci per le lusinghe dei petroldollari e a infiorettare campionati d'oltralpe pur se già idoli di tifoserie e città.
Non aspettiamoci più i Platini, i Maradona e i Van Basten venuti da fuori a disegnare parabole da illusionisti. L'Eldorado è ora altrove.
Per il momento, in attesa di tempi migliori, accontentiamoci di ricordare le punizioni a foglia morta, i colpi di tacco, ma soprattutto le piazze piene, a Napoli come a Udine. E a ricercare tra noi un talento più cristallino da coltivare come fosse un sogno nel cassetto..
 
Pubblicato su Italiagermania4-3.com e su Datasport.it il 23 novembre 2012
http://www.datasport.it/attualita/2012/approfondimenti/mi-ritorni-in-mente-o-tempora-o-petroldollares.htm
 

..horror vacui litterarum..

The doctor is in - Oggi parleremo dell'angoscia esistenziale nascosta dietro la dimenticanza di una trama.

 
 
 

Panico. Buio. Il vuoto dell'abisso assoluto. Tabula rasa.
Ecco cosa rimane di un ventennio di letture. Ma sarà mai possibile?
Alla domanda, "Hai letto il Visconte dimezzato?" la risposta è: "Sì" (ed è la verità). Cosa succede nel Visconte dimezzato? Boh..
"Hai letto La coscienza di Zeno, Il fu Mattia Pascal, Il nome della rosa e Il Gattopardo?"
"Sì", e so per certo che è la verità.
"Come si sviluppano e come finiscono?"
Boh. Il nulla e un vago senso d'angoscia..
Ma com'è possibile? Eppure ricordo mi piacquero. No, aspetta, qualcosa alla fin fine rimane. Del Visconte dimezzato ricordo Pippo diviso a metà nella trasposizione fumettistica in Topolino, del Nome della rosa ricordo l'incendio finale e la scena erotica prezzolata (derivante dal film e dai miei ormoni adolescenziali, of course). Del Fu Mattia Pascal un'assurda scena in cui c'è un bibliotecario derisibile, La coscienza di Zeno ricordo che lui fuma e che le sorelle iniziano tutte con la A. Per tacere di altre amenità come La luna e i falò, etc etc etc..
Tutto qui quello che rimane? E a parte il piacevole solletico nell'atto stesso della lettura, chi me lo fa fare (o, meglio, chimmeloffaffare)?
Molto meglio dedicarsi ad altro (ma a cosa?) se poi quello che rimane è solo una sensazione (bello/brutto, caldo/freddo) che so almeno dove cercare (stomaco).
 
Rimane per ultimo il fastidio del non ricordo e l'angoscia della dimenticanza: niente promemoria, alerts o reminder per la letteratura.
Alla fine si dirà, "Pazienza, funziono così". Restano dunque solo una sbiadita sensazione per lo più data dal momento in cui si apre il libro e il senso di superiorità nell'averlo letto, necessariamente accompagnata dalla predisposizione all'arrampicatura sugli specchi.
 
Ad ogni modo, almeno nella mia testa, così si giustifica l'esistenza delle biblioteche.


 

lunedì 19 novembre 2012

Compiti per casa

Esperimento per chi volesse: potreste lasciare un commento e dire che cosa vi suscita (se qualcosa vi suscita) la lettura del brano qui sotto? E perché non vi piace? Grazie in anticipo.
 

venerdì 16 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Pepe Schiaffino

..lo stile peperino di Schiaffino..
  
Il 13 novembre di dieci anni fa moriva Juan Alberto Schiaffino. Detto Pepe: le madri riconoscono subito le qualità, piacevoli o spiacevoli che siano, dei loro figli. Nato a Montevideo nel 1925 ha rappresentato un mito nei due mondi cari anche a Garibaldi. Con la nazionale uruguagia ha creato un mito, in Italia ha reso grande il Milan. È considerato uno dei più grandi di sempre e ha fatto da chioccia a un certo Gianni Rivera. Andiamo però con ordine nel tentativo di dare un'idea non solo del calciatore e dell'uomo Schiaffino, ma anche di un ambiente e di un calcio entrato ormai nell'era del mito.
Il piccolo Pepe (raggiungerà il metro e 75 per al massimo 70 chili) nasce a Montevideo, nipote di un immigrato ligure, pare di Camogli; calcia i primi palloni fino a seguire le orme del fratello e approdare nel Penarol. I primi anni è costretto a fare un altro lavoro per sbarcare il lunario come l'operaio o il fornaio. Si impone finalmente in prima squadra, come centrocampista, ragioniere del campo rettangolare, ma anche, come dirà Gianni Brera in anni successivi, illuminava il gioco con la semplicità dei grandi. Era innato in lui il senso della posizione, ma soprattutto aveva carisma. Era nato leader, ma sui generis. Spesso taciturno, introverso, non di rado in disaccordo con allenatori e compagni, tendeva a fare di testa sua, ma con un cipiglio da giocatore maturo già in giovane età.
Non potevano non aprirsi per lui le porte della nazionale, La Celeste; e proprio in occasione di un mondiale che diverrà epopea. Nel 1950, infatti, i Mondiali si svolgevano in Brasile. Inutile dire che tutto pendeva dalla parte dei padroni di casa, figurarsi che già prima della partita decisiva tra le due compagini (ai carioca sarebbe bastato un pareggio) si sprecavano i proclami da trionfatori e i discorsi celebrativi. Il Maracanà ribolliva, a maggior ragione dopo l'1-0 dei brasiliani. Colpiti nell'orgoglio, gli uruguagi, guidati dal leggendario capitano Obdulio Varela (con cui però Schiaffino non andava d'accordo), reagiscono pareggiando con una rete del nostro Pepe. Lo stadio ammutolisce, il gelo si tramuta in tragedia quando Schiaffino confeziona un assist che porta l'Uruguay a vincere la Coppa Rimet, nella tana del leone. Si conteranno diversi suicidi e infarti tra i tifosi brasiliani, inutile sottolineare come quella partita diventò da subito mito.
Dovranno però passare altri quattro anni prima che Pepe Schiaffino trovi un accordo con una squadra italiana. È il Milan del presidente Rizzoli a comprarlo, bruciando la concorrenza del Genoa. Pepe arriva in Italia a 29 anni suonati, ma è tutt'altro che sul viale del tramonto. Parsimonioso fuori dal campo (è inoltre il primo a gestire la propria carriera con piglio imprenditoriale) è generoso nelle sue giocate, geniale inventore del tackle in scivolata da dietro. Con il Diavolo vince tre scudetti in sei anni e segna 60 reti, portando i milanisti a giocare anche una finale di Coppa Campioni. Non bastano queste aride cifre per dare l'idea di chi in patria era considerato semplicemente il Dios del Futbol e in Italia Il Calcio per antonomasia e che con il celeberrimo Gre-No-Li, ma anche con Buffon e Cesare Maldini, e poi con Altafini fece parte di un Milan da sogno. Da oriundo (per Bianciardi il migliore di tutti, più di Sivori per intenderci) sarà anche convocato in Nazionale Italiana, senza fortuna, molto probabilmente per incompatibilità con gli allenatori dell'epoca e per la sfortuna di non essere risucito a portare, unica volta nella storia patria, gli Azzurri al Mondiale di Svezia (1958).
È paradigmatico, infine, di una concezione calcistica l'ultimo spezzone della sua carriera, viene ceduto alla Roma e retrocede in campo posizionandosi davanti al portiere a dirigere i compagni e ad allevare futuri campioni, come De Sisti: così facevano a quei tempi.
Ritornerà infine in Uruguay tentando senza convinzione né buona sorte la carriera di allenatore (eppure sembrava esserlo in campo) e quindi optò per la carriera di imprenditore, in cui, da buon genovese, era senz'altro portato.
Di lui disse Eduardo Galeano: "Schiaffino, con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio". Ora scruta dall'alto dell'Olimpo calcistico assieme ai più grandi di sempre.

venerdì 9 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Pasolini calciatore profetico

..mancino poetico..
 
Esattamente una settimana fa ricorreva l'anniversario della morte brutale di Pier Paolo Pasolini. A 53 anni l'Italia perdeva uno degli ultimi intellettuali che abbiano potuto fregiarsi pienamente di tal nome. Perché lo vogliamo ricordare anche noi? Per tre motivi:
 
- Il primo perché non tutti sanno quanto Pasolini fosse innamorato, appassionato, fanatico del calcio. Alla domanda di Enzo BiagiSenza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?” rispose: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l'eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Attenzione, non un calciatore: un BRAVO calciatore. Perché Pasolini ha sempre giocato a calcio, da Casarsa (Pordenone), in cui visse da adolescente, a Bologna dove da ragazzo divenne tifoso della squadra felsinea che allora per lui era “il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone”. E ancora si ricordano le partite tra le varie troupe cinematografiche quando già era affermato regista.
 
- Il secondo motivo è legato a una stagione, una stagione in cui il calcio era raccontato, letto, disaminato da scrittori e giornalisti di caratura altissima. Di questi pochi ne possiamo paragonare con chi oggi ne ha preso il posto. Mi riferisco a Pasolini, ma anche a Brera, Bianciardi e in altri sport a Clerici e Tommasi.
 
- La terza ragione ha a che vedere con la visione, modernissima e poetica del calcio che aveva Pasolini. Visione modernissima perché era un vero appassionato, lo seguiva, si intendeva di tecnica e tattiche e perciò fu profetico come lo fu in altri ambiti (si ripensi alle sue analisi politiche, di costume, di sociologia televisiva, letterarie): “Il segreto del gioco moderno, sul piano individuale, è l’esattezza massima alla massima velocità, correre come pazzi ed essere nello stesso tempo stilisti”. Se non è profezia questa… E poi intervistare i giocatori del Bologna, come fece con, tra gli altri, Giacomo Bulgarelli, nel film documentario Comizi d’amore su tematiche quali l’amore e la sessualità, è anticipare di almeno trent’anni qualunque altro discorso su queste tematiche coinvoglendo anche calciatori. Peccato che ancora nel calcio sussistano diversi tabù (leggasi: omosessualità).
 
Chiudiamo citando il poeta friulano per dare esempio della sua visione romantica del calcio:
 
Il gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Anche il dribbling è di per sé poetico. Infatti il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se si può immaginare una cosa sublime è proprio questa”.
 
I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo "Stukas": ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”.
 
..“E so come sia terso in questo ottobre
il colle di San Luca sopra il mare 
di teste che copre il cerchio dello stadio”..
 
 
Pubblicato su Italiagermania4-3.com e su Datasport.it il 09 novembre 2012
 
 
 

martedì 6 novembre 2012

Football Clan: La rete della camorra

Seconda parte in cui ripercorriamo sulle orme del libro Football clan di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo come il pallone sia finito nella rete della camorra. Come sono stati coinvolti Maradona, Balotelli, Cannavaro, Chinaglia e Lavezzi in un gioco più grande di loro? Come fa la camorra a insinuarsi e a prendere controllo di intere società di calcio?




Continua il nostro viaggio alla scoperta del libro Football clan del magistrato Raffaele Cantone e del giornalista Gianluca Di Feo. Nella prima parte che trovate qui, abbiamo introdotto la pubblicazione, ora iniziamo ad entrare nel cuore del libro e nella sezione dedicata alla rete della camorra. Per motivi di spazio ci limiteremo a raccontare a grandi linee solo il rapporto camorra e calcio, ma il libro descrive più dettagliatamente i nodi che coinvolgono anche altri ambiti. Dalla canzone alla politica, dalle imprese di costruzione allo spaccio di droga.
Quando è iniziato tutto? Quando il calcio è diventato qualcosa di più di uno sport per malfattori di diversa fatta? Gli autori individuano un preciso momento storico nel mondiale argentino del 1978. Forse per la prima volta la televisione, ormai a colori, diventa il veicolo privilegiato del calcio. Ma non solo, anche veicolo di propaganda a livello planetario. È l’Argentina della giunta militare che forzò l’evento sportivo per ridurlo a uno spot di potere politico e dittatoriale. Nel frattempo, in Campania, Raffaele Cutolo (il don Raffaè di De André) guida la camorra nella modernità della criminalità organizzata. Come Totò Riina a Corleone, i Cutolo mettono fine alla camorra di carattere e ne fanno un’organizzazione mondiale implicata come una piovra in mille meandri di attività con un solo scopo: il potere. Non contano quasi più i soldi, conta il controllo: del territorio e della gente. E qual è uno dei passatempi più vicini alla gente se non il calcio? Tempi addietro farsi vedere alle processioni del paese, essere omaggiati dalla statua paesana era la patente di celebrità massima; ora che i tempi son cambiati e che il pallone è la religione più diffusa, i boss se ne fanno vanto e lo usano come strumento per entrare in tutti gli strati sociali.
Ecco allora come si spiega la visita del presidente dell’Avellino, Antonio Sibilia, in compagnia di Juary, campione brasiliano finito in Irpinia in quella stagione tanto magica quanto dubbia, a Raffaele Cutolo, allora rinchiuso in un’aula di tribunale a Napoli e in attesa di processo. È il primo, plateale, sfacciato riconoscimento a un boss in cui viene sfoggiato un calciatore famoso. C’è chi si indigna: Luigi Necco, telecronista RAI, denuncia questa collusione alla Domenica Sportiva. La domenica successiva tre sicari lo gambizzano, una punizione tipica del clan dei cutoliani: è un avvertimento per lui, e per tutti. Era il 1980.
Lo stesso anno del primo scandalo del Totonero, le scommesse illecite e le partite truccate. Grande fu lo shock mediatico in tutta Italia, coinvolte tra le altre Milan e Lazio, e giocatori già idoli come Paolo Rossi Bruno Giordano. Un terremoto che avrebbe potuto dare al sistema calcio italiano gli anticorpi che in futuro (si legga: oggi) sarebbero stati determinanti. E invece, complice il Mundial 1982 e l’amnistia che coinvolse un po’ tutti, complice la giustizia ordinaria impreparata e quella sportiva inadeguata, quegli anticorpi non si svilupperanno mai, e ora ne paghiamo le conseguenze.
Da quella stagione, ancora in parte oscura, arriviamo a Maradona. Restiamo però in Campania, a Napoli, dove ai Cutolo si sostituiscono dopo sanguinose lotte, faide e controfaide, i Giuliano. Maradona è stato ed è molte cose. Per Napoli era (è) un dio. Ci fu la lotta tra i clan per chi potesse avere la possibilità di fregiarsi della sua amicizia: uno spot che tra i bassifondi di Spaccanapoli equivaleva a una bandiera perennemente sventolante. Naturale dunque che la polizia ritrovi un intero album (per alcuni sono fotomontaggi) che ritraggono El pibe de oro assieme ai Giuliano nella vasca da bagno a forma di conchiglia.
Ma è il 1986, il Napoli è alla caccia dello scudetto: impossibile divulgarle per motivi di ordine pubblico. Sarà un’altra occasione persa per la produzione di anticorpi al virus delle infiltrazioni camorristiche.
E proprio le foto sembrano anche ai nostri giorni un vero e proprio status symbol per i camorristi, ma non solo. Si pensi al giovane tatuatore napoletano che sulla sua pagina facebook mise una foto dell'ignaro Pocho Lavezzi: uno spot gratuito che più efficace non si può. Peccato che i colleghi non la prendano benissimo: quel tatuatore finirà ammazzato per mano della camorra. Anche così ci si contende l’immagine dei calciatori, non solo attraverso le campagne pubblicitarie delle multinazionali. Altri esempi? Le foto di Hamsik, ma anche la presenza di Balotelli a Scampia. Che ci fa uno come SuperMario nel bel mezzo del territorio camorristico che ogni giorno è teatro di aspre lotte tra cosche rivali e i tentativi delle forze dell’ordine di portare un po’ di legalità? Gli interrogatori del talento italiano più cristallino sono ancora secretati, l’entourage del giocatore fa sapere che Mario, letto il libro Gomorra, volle andare a vedere di persona il quartiere simbolo della camorra di oggi. Altre versioni sostengono che l’onore della visita del campione fu divisa tra gli Scissionisti Antonio Lo Russo, un membro di una delle famiglie più potenti e super tifoso di calcio, tanto da seguire le partite del Napoli da bordo campo, come vediamo nella foto qua a latoSpesso i calciatori sono vittime più o meno inconsapevoli, lo stesso Balotelli ammette di essere stato “ingenuo”. Ma come fanno questi malavitosi ad arrivare a uno come SuperMario?
Già, la questione è proprio questa: come ci si infiltra tra le maglie di una società che ha mille occhi e che è attenta alle persone con cui ti incontri? C’è bisogno di intermediari. Persone che stanno di qua e di là della frontiera. Imprenditori iperattivi, senza grossi scrupoli, faccendieri introdotti nelle camere segrete dove si decidono il destino di grossi capitali frutto di azioni malavitose. Ad esempio come lo sono i milioni, miliardi di euro che devono essere riciclati. E qual è una delle attività principali con cui si possono riciclare ingenti somme di denaro sporco? Storicamente lo sono ristoranti e pizzerie. È notizia recente che in Germania, a detta dello stato tedesco, sono aumentate le aperture di pizzerie e ristoranti, grazie a soldi riciclati, in maniera esponenziale. Ovviamente anche da noi questo è un sistema molto usato e anche qui ci entra il pallone: come? Si prende, ad esempio, un giocatore famoso, lo si fa entrare come socio con quote di favore e lo si usa come prestigioso testimonial. È quello che è successo a Fabio Cannavaro, che si è visto convocato dagli inquirenti per avere spiegazioni sul suo rapporto con Marco Iorio, imprenditore e ristoratore di successo grazie anche al nome di Cannavaro. È un’inchiesta ancora in corso, e non tutti i legami sono stati chiariti. Certo è che tutti si professano innocenti, al massimo si autoaccusano di “ingenuità”.
Però non c’è solo il calcio della serie A. Ci sono i campi di periferia: lontani dalle città, i paesi si uniscono non più nella piazza o attorno al campanile, ma nel campo sportivo. Dalle Alpi alla Sicilia, c’è un intero movimento animato dalla passione sportiva, dalle antiche rivalità campanilistiche, che ogni domenica si riversa nel calcio dei dilettanti o dei semi-pro. Che ghiotta occasione per la camorra! Portare in alto la squadra del paese, acquisire celebrità, prestigio agli occhi del territorio, addirittura usare la squadra per competere nella supremazia all’interno della cosca. È quello che è successo a Mondragone nei primissimi anni ‘90. Il presidente Pagliuca arriva ai vertici della squadra e la usa come spot domenicale, quasi a voler insidiare il potere del boss Augusto La Torre che nel frattempo si trova in prigione. Pagliuca verrà ammazzato mentre al bar del paese sedeva con moglie e figli. Il Mondragone decadrà con lui. Come successe all’Albanova, allora in C2, arrivata a un passo dalla C1. Poi in due anni, decade il boss, decadono le squadre. Ecco l’effetto delle mafie sul calcio paesano, quello che si vorrebbe, almeno lui, più puro del calcio professionistico di ultima generazione.
E poi c’è un altro movimento: quello che dal basso, dai boss della periferia, cerca di raggiungere le vette. È uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni. Giorgio Chinaglia, recentemente scomparso, usato (non si saprà mai quanto involontariamente) per arrivare a mettere le mani sulla presidenza della Lazio. Pressioni da ogni lato sull’attuale presidente Lotito. Non solo a livello dirigenziale, con una vera e propria macchina da guerra messa in piedi da Giuseppe Diana con avvocati, commercialisti, faccendieri vari a sostenere nell’ombra lui, Long John, un vessillo per i tifosi laziali, ma anche gli stessi supporter che fecero la loro parte nell’esercitare influenze varie su Lotito. Come tutti sappiamo l’inchiesta anticamorra dei pm di Napoli ha spezzato il sogno di Re Giorgio, morto quest’anno da latitante negli StatesDiana, il camorrista che tentava la scalata, ha preferito sparire, di certo portandosi con sé diversi milioni di euro.
Ma che cosa cerca la camorra in una delle squadre più in vista di serie A? Quello che cercava nelle tribune di periferia: contatti. Accomunati da una fede calcistica, nelle tribune non si fa solo il tifo, si stringono alleanze, si definiscono simpatie e antipatie, insomma, si tirano le fila che muovono pupi e marionette, in un ballo macabro che alla fine costa molto ai veri tifosi. I veri tifosi che vanno allo stadio ormai con il dubbio di vedere una partita onesta, ma anche con la paura di essere circondati dagli ultras. Gli hooligans nostrani non hanno nulla da invidiare a quelli di altre nazioni, anzi, secondo la polizia, la camorra, la criminalità organizzata in generale, è ben presente in diversi settori delle curve. È un rapporto ambivalente: le curve forniscono gente disposta se non a tutto, a molto; alcuni gruppi delle curve ricevono protezione, soldi e contatti privilegiati con giocatori e dirigenti. Ma di questo continueremo a parlare la prossima settimana addentrandoci nel campionato delle mafie...


Gli estremi del libro:
Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, Football clan. Milano: Rizzoli, 2012.
Collana Saggi, 288 p., 17 euro. ISBN : 17059008
 
Pubblicato su Vavel e Italiagermania4-3.com il 06 novembre 2012

sabato 3 novembre 2012

ATP Paris Bercy: Jerzy Janowicz dalle quali alla finale


Prima semifinale del torneo Masters di Parigi Bercy vinta da Janowicz per 6-4 7-5 sul francese Simon. Il polacco affronterà ora il vincente della seconda semifinale tra lo spagnolo David Ferrer e il francese Michael Llodra. Pioggia di dropshots, di aces e alla fine di lacrime per il protagonista della favola del torneo parigino.




Come spesso accade, il torneo di Parigi Bercy, troppo vicino alle Finali dei Masters che iniziano lunedì a Londra, lascia spazio a tante sorprese. Non saranno contenti gli organizzatori che hanno perso i primi quattro del mondo, ma per gli appassionati è l’occasione di vedere giovani emergenti come il polacco ventunenne Jerzy Janowicz. Partito dalle qualificazioni e dalla posizione 69 delle classifiche mondiali, ha battuto grandi nomi del tennis contemporaneo come Murray, Tipsarevic, ma anche Kohlschreiber, Tursunov e Cilic. Insomma, arrivati a questo punto ci si aspetta ormai il coronamento di una favola. Opposto al francese Simon non aveva molto da perdere, anzi tutto da guadagnare. E così è stato!
Il primo set parte senza troppi sussulti, si segue il ritmo dei servizi con Janowicz puntare sulla potenza di servizio e dritto (e qualche drop, come ci ha abituato) e Simon, che non eccelle in nessun colpo, ma sopperisce con la sagacia tattica alla carenza di armi di sfondamento, a manovrare il gioco nei punti meno forti del polacco (segnatamente il rovescio). Al quinto game Janowicz conquista il break aggredendo il francese, sparando traccianti di diritto anche da dietro la linea di fondo e tenendo bene lo scambio. Velocemente si arriva al game di servizio con cui può chiudere il parziale e lo tiene mantenendo freddezza e concentrazione da giocatore navigato. 6-4, 6 aces, 88% di prime in campo che gli rendono più l’86% punti e ben 20 vincenti sono il bottino di un ottimo primo set per il polacco che ha anche approfittato di un Simon poco propositivo.
Il secondo parziale parte sulla falsariga del primo, ma il polacco sembra un po’ troppo frettoloso nel cercare di chiudere gli scambi, mentre Simon cerca nuove soluzioni e si fa ingannare di meno dai drop biancorossi. È comunque il servizio di Janowicz a farla da padrone: questo colpo non cala e quindi ci si trascina al 5 a 5. È il fatidico undicesimo game a condannare Simon. Male Gilles che continua a non osare, bene Jerzy che sale di livello proprio in questo turno di risposta e se l’aggiudica con autorità. È una formalità poi chiudere game, set and match al servizio con lo score di 7 a 5 con un drop shot e lacrime di gioia.
Dopo questa bella vittoria per 6-4 7-5, Janowicz aspetta per la finale di domani alle ore 15 il vincente dell’altra semifinale in programma alle ore 17 che vede di fronte l’altro francese ancora in gara Michael Llodra e lo spagnolo David Ferrer: un confronto di stili per fini intenditori di tennis.

Articolo pubblicato su Vavel il 3 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Quando gli dei compiono gli anni..

..la mano de dios del pibe de oro..


Martedì scorso, 30 ottobre, ricorreva l'anniversario della venuta al mondo di Diego Armando Maradona.
È strano per tutti vedere come passino gli anni, c’è chi se li sente addosso e chi li vede accumularsi negli altri. Solo lui, El pibe de oro, il ragazzo d’oro, sembra sempre uguale a sé stesso, forse perché non è mai stato uguale a niente e a nessuno.

Nessun paragone è mai stato davvero possibile con lui. Eduardo Galeano, uno dei più grandi scrittori viventi del Sudamerica, e forse il più grande scrittore di calcio, dice di Dieguito: “Maradona è incontrollabile quando parla, molto di più quando gioca”. E la sua vita è stata e sembra ancora un gioco eterno, con il pallone tra le gambe, i piedi ben piantati in terra, ma la testa, e le gambe, e le mani quasi protese verso il futuro, verso il cielo.

Nel nostro piccolo vogliamo ricordarlo nella sua sfera sacrale.
Non è un caso se per lui, da lui, si è coniata l’espressione Mano de Dios. E non è un caso che in molti vedano Maradona circonfuso da un’aura sacra, come i Re Taumaturghi di un tempo, come i sovrani asiatici paragonati al Sole. Dice Emir Kusturica, nel suo Maradona by Kusturica: “È un dio. E agli dei si perdona tutto”.

Canta Manu Chao con i Mano Negra: “Santa Maradona priez pour moi”, Santa Maradona prega per me. Nei campi da calcio è sempre stato l’Onnipotente, lui che ha travalicato le leggi della fisica usando un corpo che a vedersi sembrerebbe adatto solo al subbuteo, facendo passare, scendere e salire palloni quasi contro le leggi dell’impermeabilità dei corpi e della gravitazione universale, lui che per davvero, per una città intiera è stato al pari di San Gennaro e per una nazione una divinità azteca. E pensare cosa avrebbe potuto fare se non si fosse fatto di cocaina (parole sue). Paradiso e inferno in un corpo solo.


Per molti è dunque un dio, anzi un Dio con la D maiuscola. Ci rieferiamo alla Iglesia Maradoniana, che conta ormai 120.000 adepti e per cui, ovviamente, martedì scorso era Natale dell’anno 52 d.D. (dopo Diego).

E così pregano loro:
Diego nuestro que estás en las canchas. 
Santificada sea a tu zurda, venga a nosotros tu magia. 
Háganse tus goles recordar en la Tierra como en el Cielo.
Danos hoy la magia de cada día, perdona a los ingleses, 
como nosotros perdonamos la mafia napolitana, 
no nos dejes caer en off-side y líbranos de Havellange y Pelé. Diego!

Diego nostro che sei nei campi
santificato sia il tuo sinistro, venga a noi la tua magia.
Possano i tuoi gol ricordarsi in Terra come in Cielo.
Dacci oggi la magia quotidiana, perdona gli inglesi
come noi perdoniamo la mafia napoletana,
non ci far cadere in off-side e liberaci da Havelange e Pelé. Diego!


Articolo pubblicato su Datasport.it e Italiagermania4-3.com il 03 novembre 2012
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Bidoni: l'incubo

Furio Zara, Bidoni: l'incubo.
Da Aaltonen a Zavarov 100 storie di campioni in teoria, brocchi di razza, guitti, avventurieri e giullari del calcio italiano dal 1980 a oggi.
 
Prefazione di Gianni Mura. Milano, Kowalski, 2006. ISBN: 88-7496-719-5. 271 p., 10,00 euro.
 

mercoledì 31 ottobre 2012

Mi ritorni in mente: Short Players

..come agli dei, a Maradona si perdona tutto..
 
Quell'attaccante è troppo grande. No, troppo piccolo. Troppo magro, troppo grasso. Questione di gusti? Questione di mode o di moduli?

Già, perché negli anni '90, l'attaccante doveva essere alto almeno 1 e 90 e pesare 90 chili di muscoli. Boksic, Vieri e Weah erano il modello. Ovviamente con eccezioni come Chiesa o Signori. Però si puntava a quello standard, all'attaccante di sfondamento. Al Bierhoff che scardinasse le difese e risolvesse le partite con un colpo di testa su calcio d'angolo. Era un calcio bloccato, le difese avevano bisogno di rilanciare la palla e trovare una torre che la difendesse per rifiatare. Il puntero doveva essere massiccio. Tanto da cercare di modificare il fisico e mettere a rischio tendini, muscoli e articolazioni.

Come nel caso di Ronaldo (quello vero, quello brasiliano). Arrivò in Italia molto più magro, con una massa muscolare molto meno accentuata di quando la lasciò. Poi iniziò a mettere su chili, prima di muscoli, poi di altro, ma questa è un'altra storia. Ci si è riprovato con Pato. Arrivò qualche anno fa in Italia meno muscoloso di quanto non lo sia ora: che ciò possa essere una concausa dei suoi problemi muscolari?

Alla fine la moda cambia, per necessità o per virtù, e quest'anno saremo costretti a fare i conti con attaccanti d'altezza minore. Andati via Ibrahimovic, passano di moda i Borriello, rimangono i short players. D'ingaggio, di statura e di età.

Soprattutto sono giovani. Prima, Giovinco era considerato troppo basso e minuto per giocare nella Juve, ora sta diventando una pedina chiave anche della Nazionale: effetto moda Barcellona? O effetto dell'antico far di necessità virtù?

Comunque, anche questo conta relativamente: Maradona non era alto, non era magro e non era muscoloso; e nessuno gli ha mai detto che non andava bene. E Messi è considerato il migliore di questi tempi di difensori comunque muscolari.

Cambiano i tempi, cambiano le mode, i pesi e le misure; rimane solo il genio calcistico. Quello sì, rimane senza misure e senza tempo.
 
 
Pubblicato su Datasport e Italiagermania4-3.com il 26 ottobre 2012
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martedì 30 ottobre 2012

Football Clan: Introduzione alle mafie nel calcio - Prima Parte

In cinque puntate a cadenza settimanale vogliamo raccontarvi un libro appena uscito, Football Clan, e ragionare con voi dello sport più bello del mondo e di quali rischi corra in Italia. E parleremo anche di Maradona e di un calcio trasformato a partire dal Mondiale argentino dei Colonnelli, di Balotelli e delle foto compromettenti di molti giocatori di oggi.

 
 
 
 
Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, Football clan. Milano: Rizzoli, 2012. Collana Saggi, 288 p., 17 euro. ISBN : 17059008

lunedì 29 ottobre 2012

Margaret duPont, campionessa di un altro tennis

Riconsideriamo la storia di una tennista che molto ha influenzato il tennis femminile. Margaret Osborne duPont ci ha lasciato il 24 ottobre a 94 anni, regalandoci un’esistenza dedicata al tennis e ai valori più nobili dello sport.

 

..in bello stile..
 
 
Mentre a Istanbul le migliori tenniste del 2012 si affrontavano per il Masters di fine anno, si è spenta il 24 ottobre, a 94 anni, una delle leggende del tennis americano e mondiale: Margaret Evelyn Osborne, maritata duPont.
La sua scomparsa ha avuto una discreta eco sugli organi di stampa specializzata, in primis in America, ma anche da noi diverse firme e diversi giornali hanno commentato questa notizia; segno non solo della sua influenza come tennista, ma anche di quanto si sia distinta in classe ed eleganza, oltre che in amore per questo sport, nell’arco di una lunga vita. Non a caso Billie Jean King la indicò come uno dei suoi modelli, she-roes, dice lei: “È stata una delle mie eroine e ha avuto una grande influenza su di me sia dentro che fuori dal campo. Spero che i ragazzi e le ragazze che vogliano iniziare una carriera tennistica leggano di lei, perché la sua vita non è stata dedicata soltanto a vincere partite, ma anche ad aiutare e consigliare gli altri”.
Al di là dei numeri impressionanti che l’hanno fatta entrare nell’International Tennis Hall of Fame già nel 1967, alla fine rimangono di queste personalità la dedizione allo sport e la fitta rete di relazioni amicali e affettuose instaurate nel corso di una intera vita e che danno ai risultati sportivi una veste ancor più mitica.
Ricordiamo brevemente i suoi record: in singolare iniziò a vincere tornei dello Slam nel 1946, nel 1947 fu classificata n. 1 al mondo e nel 1949 visse il suo exploit vincendo Roland Garros, US Championships e finendo finalista a Wimbledon. Ricordiamo che non partecipò mai allo Slam australiano, ecco perciò come i suoi 6 titoli siano significativi di una classe cristallina, in un’epoca difficile, nel dopoguerra in cui alcuni passavano tra i professionisti, ma per altri, come la duPont, il tennis rimaneva un divertente passatempo, una forma d’arte slegata da altri fattori. Infatti diceva: “Per me è sempre stato solo tennis, tennis, tennis. Non so perché, ma lo amavo e l’ho sempre amato”.
Ancora più notevole la sua carriera di doppista: principalmente con la prediletta compagna Louise Brough Clapp (ancora vivente alla bell’età di 89 anni). Iniziò a vincere Slam nel 1941, per chiudere il ciclo vincente, ma non le competizioni, nel 1957 a 21 titoli, 13 US Championships di cui 10 consecutivi (1941-1950). Se sommiamo anche i titoli in doppio misto (accompagnandosi anche a Neale Fraser) raggiungiamo la strabiliante cifra di 37 tornei dello Slam che le consentono di porre la firma come quarta di questa speciale classifica dietro solo a campionesse come Margaret Smith Court, Martina Navratilova e Billie Jean King.
Nel 1947 sposò William duPont Jr. da cui ebbe un figlio nel 1952. Va da sé che continuò a vincere anche dopo la maternità, ed è una delle poche donne ad avere questa particolarità. A questo matrimonio si lega il motivo per cui non andò mai in Australia: semplicemente il marito non glielo lasciò fare, la minacciò di divorzio. Un peccato per il suo ruolino di campionessa, anche considerando che poi si separarono comunque… Alla fine scelse di vivere con un vero sportivo, Margaret Varner Bloss.
Anche da questo denotiamo parte del suo carattere. Tutti la ricordano come d’animo gentile, addirittura accondiscendente, leale in campo e fuori, non ossessionata dalla vittoria. E così forse si spiegano anche le tre finali perse contro l’amica compagna di doppio, la quale forse aveva un po’ più di fame sportiva della nostra Margaret. Le parole di Tony Trabert dicono molto a questo proposito: “Ho visto molte volte giocare Margaret ed era una fuoriclasse, soprattutto in doppio, come si può notare dai suoi record. L’ho sempre trovata una persona genuina, simpatica e di grande sportività. È stata un’incredibile ambasciatrice per il nostro sport”. Gianni Clerici è dello stesso avviso e ci aiuta a inquadrare la sua parabola tennistica in quel particolarissimo periodo di trasformazione del mondo della racchetta. Anche per le donne il gioco si evolveva; e di conseguenza si evolvevano le giocatrici.
Quella generazione americana, discendente diretta da Alice Marble, è stata il tramite che avrebbe portato a Billie Jean King, alla Navratilova, per poi passare dalla Graf e giungere alle beniamine d’oggi. Quella generazione americana fu abbondante di talento, non solo le due summenzionate, ma anche Pauline Betz, Doris Hart, Shirley Fry e Althea Gibson. Erano moderne e antiche allo stesso tempo, eleganti eppure vere combattenti in campo.
Si è spenta dunque una delle memorie storiche di questo gioco che però non era legata solo a un mondo antico e sorpassato, ma bensì seguiva con molto interesse anche il tennis d’oggi, con una predilezione per l’Andy Murray di quest’anno. “Però”, diceva, “ora colpisci la palla più forte che puoi e di quando in quando ti avvicini alla rete. Non c’è molta attività cerebrale in questo. E, ovviamente, l’evolversi della tecnologia delle racchette ne ha fatto uno sport completamente diverso”.
Per una abituata ai gesti bianchi, alle volée il più variate possibili, al serve and volley, al rovescio monomane, dev’esser stato come vivere una rivoluzione copernicana.
 
 
Articolo pubblicato su Ubitennis e su Vavel il 27 ottobre 2012
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venerdì 26 ottobre 2012

Da un video su Ken Rosewall

TENNIS - Vi proponiamo in traduzione un interessante articolo di Steve Tignor su Ken Rosewall, sul suo stile, sui suoi colpi magistrali, in particolare del suo rovescio ormai leggendario.

 
 
 
Nelle prime battute del suo match di mercoledì 10 ottobre, a Shangai, contro Federer, Lu ha messo in mostra un passante di rovescio in slice che si è risolto in un vincente. Difficilmente si vedono di questi colpi che vanno a segno al giorno d'oggi, come ha giustamente chiosato il commentatore di Tennis Channel Doug Adler. E ha poi aggiunto che gli ricordava un rovescio di Rosewall.
 
Io non ho mai visto giocare Rosewall dal vivo, ma avendolo studiato in diversi video ne so abbastanza dell'australiano, ironicamente chiamato Muscles, Muscoli, per intendere perfettamente quello che Adler voleva dire.
Rosewall aveva un colpo che oggi non esiste più: lo slice di rovescio d'attacco, che era un colpo assai più vicino a una palla piatta, come magari usa di più ora. Nel suo recente libro "The Greatest Tennis Matches of All Time", Steve Flink ha classificato il rovescio di Rosewall come il secondo miglior rovescio della storia del tennis, subito dopo a quello di Don Budge. Scrive Flink: "Il suo rovescio funzionava per ogni combinazione: negli scambi, come passante, come lob e anche come risposta al servizio".
Dopo il passante di Lu sono allora andato a cercare qualche vecchio video dei rovesci di Rosewall. Il migliore che ho trovato su YouTube è quello fatto da Kevin Rosero da una vecchia registrazione della finale degli U.S. Open a Forest Hills, dove Rosewall battè il connazionale Tony Roche.
 
Finora ho sempre cercato di utilizzare video che si possono legalmente postare, ma ho visto che sempre più ne trovo con la scritta “Embedding disabled by request”, suppongo per richiesta dei detentori dei diritti (la CBS o la USTA). Questo video, però, non potevo non condividerlo, visto che è una specie di Giardino dell'Eden del tennis vecchio stile che io mi porto dentro. I miei appunti a riguardo li trovate qua sotto.
 
*****
- Il primo scambio del video esemplifica la tesi di Flink: Rosewall incomincia con una delicata risposta di rovescio che cade poco dopo la rete, ricaccia indietro Roche con un lob di rovescio, poi colpisce due buone volée di rovescio prima di chiudere un'altra, di diritto e vincente. Per un attimo ho pensato che Rosewall stesse per agitare il pugno come Nadal dopo quest'ultimo colpo, ma era solo la mia mentalità moderna a farmelo credere. Non sarebbe stato lo stile di Rosewall, ovviamente.

- È dura da credere che Roche fosse la stessa eminenza grigia che si vede in giro per i tornei di oggi. Ai tempi era più vicino a un taglialegna, con un potente servizio e una volée di rovescio che sembrava non perdonasse (Flink la classifica seconda dopo quella di Edberg). Roche usa una racchetta d'alluminio, sembrerebbe una Slazenger Smasher o una Chemold, che dà ai suoi colpi un sordo rumore, che potrebbe però benissimo essere uguale a quello di una racchetta di legno. Roche perse la finale Open l'anno precedente contro Rod Laver in quattro set (fu il sigillo finale del Grand Slam di Laver) e perderà in quattro set anche questa volta.

Nelle discussioni sulla storia del tennis, Rosewall è sempre stato all'ombra di Laver: è comprensibile, seppur ingiusto. Le sue credenziali sono solidissime e la sua longevità eccezionale. Ha vinto otto majors, quattro prima di diventare pro nel 1956 e quattro a partire dal 1968, cioè dopo l'inizio dell'era Open.
Ci piace immaginare quanti Slam avrebbe vinto Laver se non ne fosse stato inibito per cinque anni. Ma quanti ne avrebbe vinti Rosewall, che non potè parteciparvi per ben undici anni? Tanto per dire, vinse il primo Slam dell'era Open, il Roland Garros del 1968, proprio su Laver; quattro ne vinse dopo i 33 anni e inoltre rimane tuttora il giocatore più anziano ad aver vinto uno Slam, nel 1972 aveva infatti 37 anni quando conquistò gli Australian Open. Addirittura, due anni dopo, a 39 anni, raggiunse la finale sia a Wimbledon che agli U.S. Open.
Ma Rosewall fu prolifico anche nei suoi anni ruggenti, trionfando in ben 15 majors del circuito pro: gli U.S. Pro, il Wembley Pro e il French Pro.

- Al minuto 3:35 di questo video, Rosewall sferra un passante incrociato di diritto che si rivela vincente: lo controlla magistralmente, come se lo telecomandasse. Il suo stile di gioco era semplice e artistico allo stesso tempo. A partire dal servizio, non c'era nulla di stonato nel suo gioco o nel suo modo di stare in campo.
Uno dei suoi primi e grandi ammiratori fu il leggendario ed elegante René Lacoste. Ecco come il giornalista Al Laney descrive il momento in cui, assieme a Lacoste, videro per la prima volta Rosewall che giocava all'Orange Lawn Tennis Club nei primi anni Cinquanta. Un artista che ammira il lavoro di un altro artista.

“Spalle al campo” scrive Laney “ho visto il viso di Lacoste illuminarsi come se si fosse accesa una lampadina. Mi giro e c'era Rosewall che scambiava con Dick Savitt. René si rizzò sulla sedia e io mi spostai per lasciargli libera la visuale, convinto che ammirasse Savitt, campione di Wimbledon. Quando iniziai a parlargli di Savitt come il miglior amatore del mondo, però, Lacoste disse: "No, no; sto guardando il piccoletto. Che giocatore meraviglioso, e così giovane!". Quel giorno vinse Savitt, ma Lacoste predisse: "Avrebbe potuto battere Levitt anche oggi, se solo si rendesse conto di quante capacità abbia, ma non c'è da preoccuparsi, lo scoprirà presto".

Con questo video riusciamo senz'altro a farci un'idea di quanto quel "piccoletto" riuscì ad esprimere il suo talento.
 
Pubblicato su Ubitennis il 15 ottobre 2012