mercoledì 31 ottobre 2012

Mi ritorni in mente: Short Players

..come agli dei, a Maradona si perdona tutto..
 
Quell'attaccante è troppo grande. No, troppo piccolo. Troppo magro, troppo grasso. Questione di gusti? Questione di mode o di moduli?

Già, perché negli anni '90, l'attaccante doveva essere alto almeno 1 e 90 e pesare 90 chili di muscoli. Boksic, Vieri e Weah erano il modello. Ovviamente con eccezioni come Chiesa o Signori. Però si puntava a quello standard, all'attaccante di sfondamento. Al Bierhoff che scardinasse le difese e risolvesse le partite con un colpo di testa su calcio d'angolo. Era un calcio bloccato, le difese avevano bisogno di rilanciare la palla e trovare una torre che la difendesse per rifiatare. Il puntero doveva essere massiccio. Tanto da cercare di modificare il fisico e mettere a rischio tendini, muscoli e articolazioni.

Come nel caso di Ronaldo (quello vero, quello brasiliano). Arrivò in Italia molto più magro, con una massa muscolare molto meno accentuata di quando la lasciò. Poi iniziò a mettere su chili, prima di muscoli, poi di altro, ma questa è un'altra storia. Ci si è riprovato con Pato. Arrivò qualche anno fa in Italia meno muscoloso di quanto non lo sia ora: che ciò possa essere una concausa dei suoi problemi muscolari?

Alla fine la moda cambia, per necessità o per virtù, e quest'anno saremo costretti a fare i conti con attaccanti d'altezza minore. Andati via Ibrahimovic, passano di moda i Borriello, rimangono i short players. D'ingaggio, di statura e di età.

Soprattutto sono giovani. Prima, Giovinco era considerato troppo basso e minuto per giocare nella Juve, ora sta diventando una pedina chiave anche della Nazionale: effetto moda Barcellona? O effetto dell'antico far di necessità virtù?

Comunque, anche questo conta relativamente: Maradona non era alto, non era magro e non era muscoloso; e nessuno gli ha mai detto che non andava bene. E Messi è considerato il migliore di questi tempi di difensori comunque muscolari.

Cambiano i tempi, cambiano le mode, i pesi e le misure; rimane solo il genio calcistico. Quello sì, rimane senza misure e senza tempo.
 
 
Pubblicato su Datasport e Italiagermania4-3.com il 26 ottobre 2012
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martedì 30 ottobre 2012

Football Clan: Introduzione alle mafie nel calcio - Prima Parte

In cinque puntate a cadenza settimanale vogliamo raccontarvi un libro appena uscito, Football Clan, e ragionare con voi dello sport più bello del mondo e di quali rischi corra in Italia. E parleremo anche di Maradona e di un calcio trasformato a partire dal Mondiale argentino dei Colonnelli, di Balotelli e delle foto compromettenti di molti giocatori di oggi.

 
 
 
 
Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, Football clan. Milano: Rizzoli, 2012. Collana Saggi, 288 p., 17 euro. ISBN : 17059008

lunedì 29 ottobre 2012

Margaret duPont, campionessa di un altro tennis

Riconsideriamo la storia di una tennista che molto ha influenzato il tennis femminile. Margaret Osborne duPont ci ha lasciato il 24 ottobre a 94 anni, regalandoci un’esistenza dedicata al tennis e ai valori più nobili dello sport.

 

..in bello stile..
 
 
Mentre a Istanbul le migliori tenniste del 2012 si affrontavano per il Masters di fine anno, si è spenta il 24 ottobre, a 94 anni, una delle leggende del tennis americano e mondiale: Margaret Evelyn Osborne, maritata duPont.
La sua scomparsa ha avuto una discreta eco sugli organi di stampa specializzata, in primis in America, ma anche da noi diverse firme e diversi giornali hanno commentato questa notizia; segno non solo della sua influenza come tennista, ma anche di quanto si sia distinta in classe ed eleganza, oltre che in amore per questo sport, nell’arco di una lunga vita. Non a caso Billie Jean King la indicò come uno dei suoi modelli, she-roes, dice lei: “È stata una delle mie eroine e ha avuto una grande influenza su di me sia dentro che fuori dal campo. Spero che i ragazzi e le ragazze che vogliano iniziare una carriera tennistica leggano di lei, perché la sua vita non è stata dedicata soltanto a vincere partite, ma anche ad aiutare e consigliare gli altri”.
Al di là dei numeri impressionanti che l’hanno fatta entrare nell’International Tennis Hall of Fame già nel 1967, alla fine rimangono di queste personalità la dedizione allo sport e la fitta rete di relazioni amicali e affettuose instaurate nel corso di una intera vita e che danno ai risultati sportivi una veste ancor più mitica.
Ricordiamo brevemente i suoi record: in singolare iniziò a vincere tornei dello Slam nel 1946, nel 1947 fu classificata n. 1 al mondo e nel 1949 visse il suo exploit vincendo Roland Garros, US Championships e finendo finalista a Wimbledon. Ricordiamo che non partecipò mai allo Slam australiano, ecco perciò come i suoi 6 titoli siano significativi di una classe cristallina, in un’epoca difficile, nel dopoguerra in cui alcuni passavano tra i professionisti, ma per altri, come la duPont, il tennis rimaneva un divertente passatempo, una forma d’arte slegata da altri fattori. Infatti diceva: “Per me è sempre stato solo tennis, tennis, tennis. Non so perché, ma lo amavo e l’ho sempre amato”.
Ancora più notevole la sua carriera di doppista: principalmente con la prediletta compagna Louise Brough Clapp (ancora vivente alla bell’età di 89 anni). Iniziò a vincere Slam nel 1941, per chiudere il ciclo vincente, ma non le competizioni, nel 1957 a 21 titoli, 13 US Championships di cui 10 consecutivi (1941-1950). Se sommiamo anche i titoli in doppio misto (accompagnandosi anche a Neale Fraser) raggiungiamo la strabiliante cifra di 37 tornei dello Slam che le consentono di porre la firma come quarta di questa speciale classifica dietro solo a campionesse come Margaret Smith Court, Martina Navratilova e Billie Jean King.
Nel 1947 sposò William duPont Jr. da cui ebbe un figlio nel 1952. Va da sé che continuò a vincere anche dopo la maternità, ed è una delle poche donne ad avere questa particolarità. A questo matrimonio si lega il motivo per cui non andò mai in Australia: semplicemente il marito non glielo lasciò fare, la minacciò di divorzio. Un peccato per il suo ruolino di campionessa, anche considerando che poi si separarono comunque… Alla fine scelse di vivere con un vero sportivo, Margaret Varner Bloss.
Anche da questo denotiamo parte del suo carattere. Tutti la ricordano come d’animo gentile, addirittura accondiscendente, leale in campo e fuori, non ossessionata dalla vittoria. E così forse si spiegano anche le tre finali perse contro l’amica compagna di doppio, la quale forse aveva un po’ più di fame sportiva della nostra Margaret. Le parole di Tony Trabert dicono molto a questo proposito: “Ho visto molte volte giocare Margaret ed era una fuoriclasse, soprattutto in doppio, come si può notare dai suoi record. L’ho sempre trovata una persona genuina, simpatica e di grande sportività. È stata un’incredibile ambasciatrice per il nostro sport”. Gianni Clerici è dello stesso avviso e ci aiuta a inquadrare la sua parabola tennistica in quel particolarissimo periodo di trasformazione del mondo della racchetta. Anche per le donne il gioco si evolveva; e di conseguenza si evolvevano le giocatrici.
Quella generazione americana, discendente diretta da Alice Marble, è stata il tramite che avrebbe portato a Billie Jean King, alla Navratilova, per poi passare dalla Graf e giungere alle beniamine d’oggi. Quella generazione americana fu abbondante di talento, non solo le due summenzionate, ma anche Pauline Betz, Doris Hart, Shirley Fry e Althea Gibson. Erano moderne e antiche allo stesso tempo, eleganti eppure vere combattenti in campo.
Si è spenta dunque una delle memorie storiche di questo gioco che però non era legata solo a un mondo antico e sorpassato, ma bensì seguiva con molto interesse anche il tennis d’oggi, con una predilezione per l’Andy Murray di quest’anno. “Però”, diceva, “ora colpisci la palla più forte che puoi e di quando in quando ti avvicini alla rete. Non c’è molta attività cerebrale in questo. E, ovviamente, l’evolversi della tecnologia delle racchette ne ha fatto uno sport completamente diverso”.
Per una abituata ai gesti bianchi, alle volée il più variate possibili, al serve and volley, al rovescio monomane, dev’esser stato come vivere una rivoluzione copernicana.
 
 
Articolo pubblicato su Ubitennis e su Vavel il 27 ottobre 2012
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venerdì 26 ottobre 2012

Da un video su Ken Rosewall

TENNIS - Vi proponiamo in traduzione un interessante articolo di Steve Tignor su Ken Rosewall, sul suo stile, sui suoi colpi magistrali, in particolare del suo rovescio ormai leggendario.

 
 
 
Nelle prime battute del suo match di mercoledì 10 ottobre, a Shangai, contro Federer, Lu ha messo in mostra un passante di rovescio in slice che si è risolto in un vincente. Difficilmente si vedono di questi colpi che vanno a segno al giorno d'oggi, come ha giustamente chiosato il commentatore di Tennis Channel Doug Adler. E ha poi aggiunto che gli ricordava un rovescio di Rosewall.
 
Io non ho mai visto giocare Rosewall dal vivo, ma avendolo studiato in diversi video ne so abbastanza dell'australiano, ironicamente chiamato Muscles, Muscoli, per intendere perfettamente quello che Adler voleva dire.
Rosewall aveva un colpo che oggi non esiste più: lo slice di rovescio d'attacco, che era un colpo assai più vicino a una palla piatta, come magari usa di più ora. Nel suo recente libro "The Greatest Tennis Matches of All Time", Steve Flink ha classificato il rovescio di Rosewall come il secondo miglior rovescio della storia del tennis, subito dopo a quello di Don Budge. Scrive Flink: "Il suo rovescio funzionava per ogni combinazione: negli scambi, come passante, come lob e anche come risposta al servizio".
Dopo il passante di Lu sono allora andato a cercare qualche vecchio video dei rovesci di Rosewall. Il migliore che ho trovato su YouTube è quello fatto da Kevin Rosero da una vecchia registrazione della finale degli U.S. Open a Forest Hills, dove Rosewall battè il connazionale Tony Roche.
 
Finora ho sempre cercato di utilizzare video che si possono legalmente postare, ma ho visto che sempre più ne trovo con la scritta “Embedding disabled by request”, suppongo per richiesta dei detentori dei diritti (la CBS o la USTA). Questo video, però, non potevo non condividerlo, visto che è una specie di Giardino dell'Eden del tennis vecchio stile che io mi porto dentro. I miei appunti a riguardo li trovate qua sotto.
 
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- Il primo scambio del video esemplifica la tesi di Flink: Rosewall incomincia con una delicata risposta di rovescio che cade poco dopo la rete, ricaccia indietro Roche con un lob di rovescio, poi colpisce due buone volée di rovescio prima di chiudere un'altra, di diritto e vincente. Per un attimo ho pensato che Rosewall stesse per agitare il pugno come Nadal dopo quest'ultimo colpo, ma era solo la mia mentalità moderna a farmelo credere. Non sarebbe stato lo stile di Rosewall, ovviamente.

- È dura da credere che Roche fosse la stessa eminenza grigia che si vede in giro per i tornei di oggi. Ai tempi era più vicino a un taglialegna, con un potente servizio e una volée di rovescio che sembrava non perdonasse (Flink la classifica seconda dopo quella di Edberg). Roche usa una racchetta d'alluminio, sembrerebbe una Slazenger Smasher o una Chemold, che dà ai suoi colpi un sordo rumore, che potrebbe però benissimo essere uguale a quello di una racchetta di legno. Roche perse la finale Open l'anno precedente contro Rod Laver in quattro set (fu il sigillo finale del Grand Slam di Laver) e perderà in quattro set anche questa volta.

Nelle discussioni sulla storia del tennis, Rosewall è sempre stato all'ombra di Laver: è comprensibile, seppur ingiusto. Le sue credenziali sono solidissime e la sua longevità eccezionale. Ha vinto otto majors, quattro prima di diventare pro nel 1956 e quattro a partire dal 1968, cioè dopo l'inizio dell'era Open.
Ci piace immaginare quanti Slam avrebbe vinto Laver se non ne fosse stato inibito per cinque anni. Ma quanti ne avrebbe vinti Rosewall, che non potè parteciparvi per ben undici anni? Tanto per dire, vinse il primo Slam dell'era Open, il Roland Garros del 1968, proprio su Laver; quattro ne vinse dopo i 33 anni e inoltre rimane tuttora il giocatore più anziano ad aver vinto uno Slam, nel 1972 aveva infatti 37 anni quando conquistò gli Australian Open. Addirittura, due anni dopo, a 39 anni, raggiunse la finale sia a Wimbledon che agli U.S. Open.
Ma Rosewall fu prolifico anche nei suoi anni ruggenti, trionfando in ben 15 majors del circuito pro: gli U.S. Pro, il Wembley Pro e il French Pro.

- Al minuto 3:35 di questo video, Rosewall sferra un passante incrociato di diritto che si rivela vincente: lo controlla magistralmente, come se lo telecomandasse. Il suo stile di gioco era semplice e artistico allo stesso tempo. A partire dal servizio, non c'era nulla di stonato nel suo gioco o nel suo modo di stare in campo.
Uno dei suoi primi e grandi ammiratori fu il leggendario ed elegante René Lacoste. Ecco come il giornalista Al Laney descrive il momento in cui, assieme a Lacoste, videro per la prima volta Rosewall che giocava all'Orange Lawn Tennis Club nei primi anni Cinquanta. Un artista che ammira il lavoro di un altro artista.

“Spalle al campo” scrive Laney “ho visto il viso di Lacoste illuminarsi come se si fosse accesa una lampadina. Mi giro e c'era Rosewall che scambiava con Dick Savitt. René si rizzò sulla sedia e io mi spostai per lasciargli libera la visuale, convinto che ammirasse Savitt, campione di Wimbledon. Quando iniziai a parlargli di Savitt come il miglior amatore del mondo, però, Lacoste disse: "No, no; sto guardando il piccoletto. Che giocatore meraviglioso, e così giovane!". Quel giorno vinse Savitt, ma Lacoste predisse: "Avrebbe potuto battere Levitt anche oggi, se solo si rendesse conto di quante capacità abbia, ma non c'è da preoccuparsi, lo scoprirà presto".

Con questo video riusciamo senz'altro a farci un'idea di quanto quel "piccoletto" riuscì ad esprimere il suo talento.
 
Pubblicato su Ubitennis il 15 ottobre 2012

giovedì 25 ottobre 2012

Mi ritorni in mente: Il primo derby non si scorda mai

 
 
Ieri, 18 ottobre, era il compleanno del derby di Milano; il 104esimo anniversario del primissimo incontro/scontro tra milanisti e interisti che avvenne all'estero, in Svizzera, nel 1908.
Da circa 6 mesi, 44 appartenenti al Milan Foot-Ball and Cricket Club si erano staccati per fondare una società nuova, il Foot-Ball Club Internazionale; i motivi del distacco erano legati all'opportunità o meno di tesserare giocatori stranieri nelle proprie fila, ed ecco spiegato anche il motivo di quel nome: Internazionale.
Dunque erano trascorsi solo pochi mesi dal dissidio, ma in Svizzera andarono entrambe le squadre a giocare la Coppa Chiasso, una manifestazione di una giornata che si teneva per il terzo anno consecutivo, sarebbe poi stato anche l'ultimo, e a cui il Milan aveva sempre partecipato. Fu l'occasione per la prima di una lunga serie di confronti sportivi e non, e il battesimo di uno dei più noti e celebrati derby del mondo. Non si sa molto di quella giornata, non c'erano le televisioni ad ogni angolo fuori e dentro il campo come ora; non c'erano inviati da tutto il mondo, decine di migliaia di tifosi, twittate con cui cinguettare e scambiare foto. Possiamo solo immaginarci com'era e cos'era il calcio nel 1908 e appoggiarci a scarni resoconti di qualche giornale come La Lettura Sportiva, La Gazzetta o il Corriere della Sera. Non si è sicuri nemmeno del tabellino: come è giusto che sia, le origini di una storia così non possono altro che essere mitiche e affondare in una memoria magica. Stando a queste storie, in finale il Milan avrebbe prevalso sull'Internazionale per 2 a 1; vennero giocati due tempi da 25 minuti l'uno e gli spettatori dovrebbero essere stati circa 2000 per un incasso di 400 franchi svizzeri.
I giocatori si saranno mossi in treno, non in aerei privati, come fosse una scampagnata. Si giocava di domenica, perché gli altri giorni si lavorava, e non nei campetti di Milanello o di Appiano Gentile, ma nelle fabbriche e nelle botteghe. Non c'erano di certo integratori, ma del vino casereccio a irrobustire le forze e cestini da picnic imbottiti di salumi per il viaggio.
Fu il pioneristico preludio di tanti altri match tra le due squadre, ad iniziare dal primo scontro in campionato che occorse tre mesi dopo, in una fredda domenica di gennaio del 1909: ancora il Milan a vincere per un goal di distacco, 3 a 2 stavolta.
Dei derby di ora sappiamo tutto, forse anche troppo; ci piace però l'idea di avere almeno una scorta di partite mitiche da fantasticare ognuno nella propria testa, secondo il proprio gusto e secondo il proprio tifo. E pazienza se non c'era la moviola a far discutere per tutta la settimana successiva..
 
 
Pubblicato su Datasport.it e su Italiagermania4-3.com il 19 ottobre 2012

domenica 14 ottobre 2012

Mi ritorni in mente: A scuola dall'Est



Vlado Petkovic, allenatore della Lazio nato a Sarajevo nel 1963, sta facendo un gran bel lavoro a Roma, tanto da meritarsi i complimenti di un presidente considerato "difficile" come Lotito. Mai i biancocelesti erano partiti così forte in campionato e in Europa in questa gestione presidenziale. Petkovic è stato anche buon centrocampista con la squadra della città natale, ora capitale della Bosnia ed Erzegovina; lo possiamo quindi considerare prodotto di quella scuola dell'Europa orientale che tanto ha dato alla storia del calcio, basti pensare all'Ungheria di Puskas, e molto ha dato anche al calcio italico. Gli allenatori dell'Est sono forse i pochi rappresentanti tra gli allenatori stranieri ad essere sempre stati presenti sulle panchine italiane a partire sin dall'inizio dei campionati nazionali. Solo negli ultimi anni ricordiamo la presenza di Boskov, Sinisa Mihajlovic e del boemo Zdenek Zeman, curiosamente seduto sull'altra sponda capitolina. 
Ma chi fu il primo allenatore di successo in Italia a provenire dall'Europa orientale? Dobbiamo risalire al campionato 1925-1926, quando dalla panchina della Juventus dirigeva i bianconeri l'ungherese Jeno Károly. Una bella e triste storia di calcio, la sua. Esponente di quell'Ungheria di fenomeni che sconfisse anche gli Azzurri per 6-1 nella famosa partita del 26 maggio 1910 (suo il quarto gol magiaro), partecipò alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912 per poi valicare le Alpi e iniziare a guidare come coach il Savona: era il 1920. Tre anni dopo Edoardo Agnelli lo volle alla Juventus, divenne così il primo allenatore professionista a guidare i torinesi; precedentemente, come usava, c'era una sorta di autogestione da parte dei giocatori. Sono gli anni pioneristici del calcio in Italia e si aveva molto da imparare da inglesi e ungheresi. Károly riuscì a portare la squadra juventina in vetta ai campionati in soli tre anni. 
Purtroppo Jeno Károly morì improvvisamente in seguito ad un attacco cardiaco che lo colse il 28 luglio 1926, a soli 40 anni. Pochi giorni dopo la Juventus avrebbe vinto lo spareggio della Finale Lega Nord di Prima Divisione contro il Bologna, per poi andare a vincere il titolo nazionale. Il vincitore morale di quello scudetto fu di certo lui: Jeno Károly, nato a Budapest e chiamato in Italia a insegnare calcio.

Pubblicato su Datasport e su ItaliaGermania4-3 il 14 ottobre 2012

mercoledì 10 ottobre 2012

L'Atlante del Tennis femminile


Riprendiamo e liberamente traduciamo l’articolo di Peter Bodo su Tennis.com uscito qualche giorno fa, dove l’autore delinea lo stato di salute del tennis, nazione per nazione, sulla base dei giocatori che emergono maggiormente sugli altri. Oggi tocca alle ragazze.


..ah, Agnieszka..


Bodo, infatti, si chiede: ma avere uno o più giocatori o giocatrici tra i top-100, fa davvero da traino a tutto il movimento nazionale? In alcuni casi sì e in altri no, vediamo nel mondo WTA come stanno le cose seguendo nei Paesi che hanno le migliori giocatrici in alto nelle classifiche, magari accompagnate da colleghe altrettanto qualificate. E analizzeremo anche come stanno le cose dopo che magari nel passato abbastanza recente, un giocatore assurse agli onori della cronaca: cos’ha lasciato dietro di sé?

Argentina. L’argentina è un puzzle. Certo come in tutto il Sud America e, in paragone, anche in Spagna. Che ci sia qualche fattore genetico che sta lavorando come inibitore? Quello che sappiamo è che dopo l’uno-due dato al movimento tennistico con Gabriela Sabatini e Guillermo Vilas, se i maschi seguirono l’esempio di Vilas creando un movimento molto forte (è il concetto della marea, per Bodo: quando sale la marea, tutte le barche si alzano), in campo femminile quasi nessuna giocatrice si è lontanamente avvicinata alle orme della Sabatini. La giocatrice argentina meglio classificata ora, è Paula Ormaechea, n. 126 al mondo, e nessun’altra troviamo tra le top-200.

Australia. Qua le cose vanno meglio, ma non così tanto, considerando i continui successi della n. 9 e vincitrice di uno Slam, Sam Stosur. Quella più vicina a lei è infatti Casey Dellacqua, n. 77 e unica top-100.
Le australiane possono consolarsi (poco), considerando come anche in campo maschile, nonostante l’eroica presenza di Hewitt e nonostante la pessima abitudine di Tomic di comportarsi come uno sciagurato, la marea che fece dell’Australia una delle potenze mondiale sia tra gli uomini che tra le donne, ora è decisamente in riflusso.


Bielorussia. La Bielorussia è una delle tante Nazioni che ti fanno chiedere: “Ma è parte della Russia o no?”. La risposta è: “Lo era, ma non lo è più”. E qua le cose iniziano a complicarsi.
Non è passato molto tempo da quando Natasha Zvereva, finalista al Roland Garros e geniale interprete del doppio, giocava per la falce e il martello. E ancora la biografia della WTA la riporta come nata a Minsk, URSS, nonostante quest’ultima sia la capitale della Bielorussia. Recentemente, però, i giocatori russi stanno “scappando” nelle repubbliche contigue, come il Kazakhistan, distorcendo per la sua parte un’indagine come questa. Ad ogni modo, la Bielorussia fa valere la sua forza con Zvereva prima e ora con Victoria Azarenka, accompagnata nella top-100 da Olga Govortsova (n. 54).


Belgio. Il Belgio, invece, sta perdendo ogni forza e grinta combattiva dopo che Justine Henin e Kim Clijsters hanno sconquassato il tennis femminile, che prima di loro aveva solo Sabine Appelmans come rappresentante di un certo livello. Certo, dopo Henin e Clijsters ora ci sono solo Yanina Wickmayer (miglior risultato, n. 12 al mondo, ora è n. 26) e Kirsten Flipkens, ora n. 68. La grandezza e la popolazione di una Nazione contano molto, a volte è uno stimolo, altre volte un fattore inibitore, e infatti non ci sono giocatrici junior sulle orme delle due campionesse, e neppure giocatrici pro nella top-200, a parte le due ragazze summenzionate.

Bulgaria. La Bulgaria diede i natali le tre sorelle Maleeva, pionere del tennis in patria. Magdalena, ex n. 4, Manuela e Katerina. Rimangono una delle più belle storie della storia di questo sport, date le disperate condizioni economiche nelle quali loro riuscirono a sviluppare le loro carriere di giocatrici di punta. L’effetto volano che loro potevano dare al tennis, è stato mangiato dalle difficoltà economiche di questa nazione: al momento si ha solo Tsvetana Pironkova al n. 44.

Canada. Il Canada potrebbe essere a margine di un vero e proprio tennis-boom, dati i successi di Milos Raonic e la forza della squadra juniors. Al n. 43 WTA troviamo inoltre Alexsandra Wozniak, con la talentuosa Rebecca Marino (ora in riposo e in recupero dallo stress stagionale) e la promettente Eugenie Bouchard (n. 2 nei ranking ITF) pronte a farle, o rifarle, compagnia.

Cina. Ora tutti conoscono la storia della Cina, che è riuscita a rovesciare il dilemma Sudamericano (e un po’ anche europeo) su chi puntare, se su un campione maschile o femminile. Loro hanno puntato sulle donne iniziando con la personalità di rottura, la Li Na (ora n. 8) e accompagnata dalle top- 50 Jie Zheng (n. 27) and Peng Shuai (n. 46).

Croazia. Come i colleghi maschi, la Croazia si è costruita una solida tradizione e un ancora più interessante futuro da costruire. C’è l’ex campionessa di Parigi (e assidua frequentatrice di party) Iva Majoli e poi Jelena Dokic e Mirjana Lucic, e ancora Karolina Sprem. Non male, vero? Però l’unica top-100 è la quieta e promettente Petra Martic.

Danimarca. C’è la farà Caroline Wozniacki, ora al n. 11, a dare l’abbrivio a un tennis boom in Danimarca? Considerando che è una delle Nazioni dei Paesi Bassi, la marea dovrebbe aiutare molto, peccato che non si trovi un’altra danese tra le prime 500 al mondo.

Francia. Nonostante siano gli uomini ad accaparrarsi i favori di pubblico, stampa e i montepremi dei tornei, il movimento tennistico delle francesi ha bisogno soltanto di una personalità all’altezza di Amelie Mauresmo. Qua il tennis ha ancora una fortissima e sicura tradizione (soprattutto se paragonata a quella tedesca o spagnola), avendo ben 6 rappresentanti tra le prime 100, guidate dalla n. 10 Marion Bartoli.

Germania. Subito dopo Boris Becker, Michael Stich, Anke Huber e Steffi Graf, gli uomini ancora fanno fatica a riempirne il vuoto. Le ragazze invece stanno per aprire un ciclo potenzialmente devastante per qualità e numeri. Cinque tedesche tra le top-100 con Angelique Kerber al n. 6, Andrea Petkovic alla ricerca di una nuova fase della sua carriera (ora è al n. 62) e le altre tre che probabilmente tra poco vedremo tutte tra le top-20. È la squadra da tenere d’occhio in Fed Cup.

Gran Bretagna. Alcune indicazioni le abbiamo date nell’altro articolo tradotto da Federico Romagnoli. Laura Robson è una grande promessa che potrà dare una spinta decisiva a tutto il movimento, ovviamente spalleggiata da Andy Murray sul versante maschile.

Giappone. Kimiko Date-Krumm , 42 anni suonati, è ormai uscita dalle top-100, lasciando sola Ayumi Morita (n. 79). Qualunque cosa accada, non si potrà imputare alla Date-Krumm di non aver dato l’esempio!

Italia. Non c’era nessuna storica per cui l’Italia diventasse una potenza tennistica in campo femminile. Prima di Francesca Schiavone regina di Parigi, nessuna giocatrice ha mai dominato le scene. Ma con lei e la Pennetta a costruire una squadra nazionale vincente, il fattore ispirazionale è stato davvero rimarchevole. E ora anche Sara Errani sta vivendo una carriera da singolarista a dir poco eccezionale, spalleggiata dalla Vinci in doppio (ma non solo).
Con 4 giocatrici tra le top-40, e Camila Giorgi in speranzosa ascesa, ci avviciniamo alla situazione tedesca, ma sapremo sostenere a dovere questo momento di grazia?


Kazakistan. Il Kazakistan deve ancora produrre alcun campione da Slam (magari anche acquistato con sonanti dollari), però ha 4 donne tra le prime 100, con Yarsolava Shvedova a capitanarle, lei che ha ottenuto un “golden set” (24 punti consecutivi). Forse che si stia creando una nuova dinastia a queste latitudini?

Messico e Olanda. E' strano che il Messico, visto dove sta, il clima e la popolazione che ha, stenti ad avere qualche giocatore di spessore. Neanche l’Olanda se la passa bene, data anche lei la tradizione, la posizione geografica, Tom Okker e Betty Stove. Ora hanno solo due top-100: la n. 60 Kiki Bertens e la n. 70 Arantxa Rus, che recentemente si è però messa almeno un pochino in mostra.

Polonia. In Polonia sperano solo che i successi delle sorelle Radwanska, Agnieszka (n. 3) e Urszula (n. 36), motivino altre ragazze a seguirle: il bacino d’utenza sarebbe notevole.

Romania. Dai tempi di Ilie Nastase e di Ion Tiriac, la Romania ha una forte tradizione e una predisposizione che continua per questo sport. Anche tra le donne, con Virginia Ruzici stabile top-10 negli anni ’80 (e finalista a Parigi) e con 5 top-100 al giorno d’oggi (Sorana Cirstea la migliore con la sua posizione di n. 31). Non si può non parlare di potenza tennistica.

Russia. Dalle parabole di Anastasia Myskina, vincitrice dei French Open nel 2004, pochi mesi prima del primo Wimbledon di Sharapova, la Russia continua a stupire ed è diventata la prima avversaria degli Stati Uniti. Ora ha 10 giocatrici tra le top-100, guidate ovviamente dalla n. 2 Maria Sharapova (residente negli Stati Uniti).

Serbia. Se fosse regola scientifica la regola della marea (ovvero l’effetto traino di grandi nomi per una nazione), la Serbia è quella con il futuro più luminoso di fronte, specialmente grazie ai maschi. Siamo ancora nel pieno dei lavori, ma con Ana Ivanovic al n. 12, Jelena Jankovic al ridosso delle top-20 e la compagnia di Bojana Jovanovski, le speranze serbe sono tra le più promettenti.

Repubblica Ceca. Questa nazione ha una grande storia alle spalle, con Martina Navratilova com nume tutelare. Merito della passine di tutta la nazione e di tutta la popolazione che però sta ancora metabolizzando la separazione dalla Repubblica Slovacca. E poi c’è la tuttora n. 4 ed ex campionessa di Wimbledon Petra Kvitova, con altre 7 rappresentanti nella top-100 e altre due a ridosso. Lucie Safarova, l n. 17, è la seconda meglio classificata.

Repubblica Slovacca. Un’altra nazione che ha raggiunto risultati al di là delle attese con la n. 13 Dominika Cibulkova, la n. 33 Daniela Hantuchova e la n. 71 Magdalena Rybarikova. Un’altra ragazza sta inoltre per entrare tra le “big”, la n. 103 Jana Cepelova.

Sud Africa. I profondi cambiamenti vissuti sembrano avere negativamente impattato sulla realtà tennistica di quella che era una nazione tennisticamente leader. Ora abbiamo solo la n. 53 Chanelle Scheepers, unica rappresentante tra le top-100.

Slovenia. Stesso discorso per la Slovenia: unica rappresentante è Polong Hercog, al n. 90, però potrebbe ispirare alcune sue epigoni per pareggiare i maschi che contano tre rappresentanti tra i top-100.

Spagna. Potrebbe andar peggio per le iberiche. Hanno 5 top-100, guidate dalla n. 40 Anabel Medina Garrigues e dalla n. 48 Carla Suarez Navarro. Però tutt’altro discorso rispetto ai maschi che hanno Rafael Nadal, David Ferrer, Nicolas Almagro, Fernando Verdasco e Feliciano Lopez. C’è dunque lavoro da fare, ma queste ragazze hanno almeno stabilito una testa di ponte.
Svezia e Svizzera. La Svezia femminile non ha mai avuto esperienza di un boom come quello dei tempi di Borg, e difficilmente ce l’avrà ora, con la n. 42 Sofia Arvidsson a guidare il duo di ragazze tra le top-100. La Svizzera non se la passa certo meglio, con la un po’ nostra Romina Oprandi unica rappresentante tra le prime 100. Che la Svizzera lasci il palcoscenico solo alle ragazze e ai ragazzi immigrati da loro? Si pensi alla stessa Martina Hingis, ma anche a Mirka Vavrinec e a Jakob Hlasek...

USA. Le ragazze degli Stati Uniti portano il peso della cantilena che vuole il tennis americano ormai defunto. A parte Serena Williams, “solo” n. 4, ma tra le candidate ad essere una delle migliori di sempre, gli USA hanno ben altre 9 rappresentanti tra le prime 100. Come Varvara Lepchenko, 26enne di origini uzbeke. E in più altre 12 ragazze, alcune ancora in formazione, tra la posizione n. 100 e la posizione n. 200.

Cosa ci riserve il futuro? Difficile dirlo, forse altre top players dalla Repubblica Ceca, ma più in là di così è difficile spingerci con le previsioni.

Pubblicato su Ubitennis l'8 ottobre 2012

sabato 6 ottobre 2012

ATP 500: Tsonga e Raonic in finale a Pechino e Tokyo contro Novak Djokovic e Kei Nishikori

A Tokyo Raonic batte il campione uscente Andy Murray al tie break del terzo set e affronterà il padrone di casa Kei Nishilori per il titolo. A Pechino Tsonga aspetta Djokovic in finale, dopo aver battuto Feliciano Lopez, che si ritira nel secondo set per infortunio. Novak Djokovic la spunta sul tedesco Mayer per 6-1 6-4.






Arrivano alle battute finali i tornei ATP 500 di Pechino e Tokyo che preparano il Master 1000 di Shangai, pronto a partire da lunedì prossimo, e assegnano preziosi punti per chi ancora aspira alle Finali dei Masters, in programma a Londra dal 5 novembre. La stagione asiatica è sempre foriera di interessanti novità, spesso a causa delle assenze di alcuni giocatori che arrivano a questo punto della stagione un po’ malconci, dando così spazio ad altri pur validissimi tennisti che hanno così l’occasione di mettersi in mostra, guadagnare punti e montepremi importanti.

PECHINO
Il francese Jo Wilfried Tsonga accede alla finale del torneo cinese dove affronterà Nole Djokovic che si è sbarazzato perentoriamente di Florian Mayer per 6-1 6-4. Tsonga conquista altresì importanti punti per difendere l’ottava posizione del ranking mondiale dall’assalto del serbo Tipsarevic e avere la certezza di rientrare tra gli otto Maestri e disputarsi le finali londinesi di fine anno.
Tsonga ha dunque avuto la meglio sullo spagnolo Feliciano Lopez dominando il primo set e usufruendo del ritiro per infortunio al polso sinistro dell’iberico, che fin qui era stato protagonista di un gran torneo, deliziando gli spettatori con il suo serve and volley, uno dei pochi ancora a scegliere questa nobile tattica forse d’altri tempi.
Con il serbo numero 2 del mondo e l'estroso francese assisteremo ad una finale interessante e sicuramente divertente, domani ore 10 italiane.

Semifinali del China Open: ATP 500 di Pechino:
N. Djokovic [1] - F. Mayer 6-1 6-4
J. Tsonga [3] - F. Lopez 6-1, 4-1 ret.

TOKYO
Nella semifinale della parte alta del tabellone va in onda la più bella partita della settimana. Già sulla carta si presentava un match interessante, e così è stato, con in più un epilogo quasi inatteso.
Raonic, il giovane canadese dalle belle speranze finora incompiute, dà una prova di maturità e avanza sulla strada che lo vede predestinato ad entrare tra i top 10. Vince sul neo campione degli US Open e medaglia d’oro Olimpica Andy Murray per 6-3 6-7(5) 7-6(4). Parte bene Milos, aggiudicandosi il primo set, complice uno scozzese che carbura piano, poi la partita si gioca sugli equilibri di due tie break. Match intenso, dal buon tasso tecnico, se fosse una partita di calcio sarebbe finita 3-3. Purtroppo, o per fortuna, il tennis deve veder vincere uno dei due contendenti: la spunta Raonic che forse in questo torneo ha più fame sportiva del campione uscente Murray e vola in finale, dove affronterà l’idolo di casa, Kei Nishikori che ha avuto la meglio sul cipriota Baghdatis, in una partita non altrettanto emozionante, spuntata dal nipponico con il punteggio di 6-2 6-2.
Finale: Raonic vs. Nishikori domani ore 7 italiane.

Semifinali del Rakuten Japan Open Tennis, ATP 500 di Tokyo:
Raonic [6] b. Murray [1] 6-3 6-7(5) 7-6(4)
Nishikori [8] b. Baghdatis 6-2 6-2

Pubblicato su Vavel il 06 ottobre 2012


Roberto Baggio

Una porta nel cielo. Un'autobiografia. 



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Prefazione di Daisaku Ikeda; interviste a cura di Enrico Mattesini, testi a cura di Enrico Mattesini e Andrea Scanzi; coordinamento e contributi di Ivan Zazzaroni; appendice statistica a cura di Elio Barraco. 6a ed. con statistiche aggiornate. Storie e miti; 48. ISBN: 88-88551-92-1. Arezzo, Limina, 2005, pp. 280; 14,98 euro.

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Roberto Baggio. 
Basta il nome per evocare ricordi e magie, incazzature e gioie, nostalgia e meraviglia.
Solo lui rimane fermo a sé stesso. Impassibile. Come insegna la scuola buddhista di cui da anni è parte. 
Anche chi non ha vissuto, o non ha vissuto appieno quegli anni calcistici, dice di sapere chi è Roberto Baggio. Non è così. Anche il più devoto al dio pallone non sa diverse cose su Baggio. Non le sa perché non sono mai state raccontate dalla stampa, perché Baggio è uno che tace e aspetta. 
In questo libro alcune cose le racconta, non tutte, altrimenti non sarebbe Baggio, ma alcune sì, e le racconta dal suo sguardo. O meglio, non è che racconti la sua versione dei fatti, ma i fatti attraverso la sua visione che è soprattutto emotiva, selettiva, passionale.
Passione è una parola chiave di questo libro: la passione è l'unico motivo che può spingere un ragazzino che non ha mai giocato in serie A ad andare al di là di un infortunio al ginocchio che per 16 anni ti costringe a giocare zoppo, ad allenarti di più, meglio e sempre. I soldi verranno poi, e se a uno richiedono di fare il professionista, ti costringono a cambiare città contro la tua volontà, beh, allora è giusto che si cerchi di trarne il massimo profitto.
È un libro che cerca di andare al di là del calcio come fattore puramente sportivo. È scritto bene, da diverse mani sapienti, e costruito come una lunga intervista sulle tematiche che hanno sempre incuriosito il grande pubblico; sullo sfondo troviamo la sua parabola da numero 10 per definizione, in ordine più o meno cronologico.
La Nazionale, i presidenti, gli allenatori, i tifosi: quando uno smette deve necessariamente selezionare le gioie da portarsi nel cuore, i momenti dolorosi si selezionano da soli. Su tutti, quel rigore a Pasadena: se ti chiami Massaro o Baresi puoi sbagliarlo, quel rigore. Se ti chiami Baggio, quel rigore viene a visitarti per molte notti, anche se probabilmente sarebbe stato ininfluente. 
Anche i tifosi fanno male, quando ti fanno pagare colpe non tue. I presidenti poi ti portano alla realtà del calcio peggiore.
E infine ci sono loro: gli allenatori. Per un numero 10 alla Baggio è un terno al lotto. Se ti ritrovi ad essere imbrigliato negli schemi, tu che sei fatto per romperli, passerai diverso tempo a pensare in panchina (pensare fa male, a un fantasista). Peggio ancora succederà quando l'allenatore vuole essere il protagonista. E tu sei amato da tutti, tifosi, giornalisti, perché incarni il sogno per definizione del calcio: il dribbling e il tocco sopraffino, la voglia di stupirsi e stupire, e questo non ti viene perdonato da un allenatore primadonna. E quei tre allora fanno finta di non capirti: Sacchi, Ulivieri e soprattutto Lippi. Per fortuna ci sono uomini che ti riconciliano con il mondo, come Mazzone
A proposito di uomini: è di questo che in realtà parla il libro. Gli amici veri: ristoratori che diventano compagni di caccia e vittime di scherzi pesanti. Della ricerca di una spiritualità profonda, impegnativa, che tiri fuori il meglio di te come uomo e nel contempo ti riempia di energie da espandere a chi ti circonda. E poi di lunghe ore leggere passate a pregare, o appostati a caccia; che poi è la stessa cosa. Di una terra nuova da amare, l'Argentina degli argentini veri, non di quella per turisti.
E la famiglia come un rifugio, ma anche un gioiello prezioso da custodire nel silenzio, da nascondere al vortice impazzito che il calcio spesso è. Allora anche il ricordo di un rigore calciato in curva può fare meno male.

Pubblicato su Italia Germania 4-3 il 6 ottobre 2012

venerdì 5 ottobre 2012

Mi ritorni in mente: Canguri d'Italia

..Bob Vieri, cioè Roberto..



Alessandro Del Piero è ormai già in Australia e si prepara alla prima partita.

Non in America, non in Europa, ma in Australia, nell'Altro Mondo: downunder, come dicono gli inglesi. Nel mondo rovesciato: dove l'estate è inverno, l'inverno è estate e il loro calcio è il rugby, o il cricket.

Forse Del Piero non lo sapeva mentre firmava un contratto milionario, ma tanti anni fa ci fu chi lo precedette. Si tratta di Bob Vieri, non Bobo, cioè Christian, ma Roberto, il padre di Christian. Roberto aveva classe, talento, ma poca applicazione. Ancor meno costanza, in campo come nella fedeltà alle maglie. Undici traslochi nella sua carriera, con avventure pioneristiche in Canada, a Toronto, e due parentesi in Australia. A Sydney, per la precisione, nei Marconi Stallions, in cui militò dal 1977 al 1981 per poi ritornarvi nel 1982 e chiudere laggiù la carriera, come Del Piero: in tutto 87 partite giocate con 17 gol nella terra dei canguri.

Sono però anche scelte di vita, forse più di quello che Del Piero si aspetta. Nel 1978, a Roberto Vieri nacque un figlio, Massimiliano, attaccante del Prato, che ha doppia nazionalità e vanta 6 presenze nella Nazionale dei Socceroos. Mentre Christian, Bobo, nato nel 1973, fece parte delle giovanili dei Marconi Stallions.

Poi c'è un altro italiano che ha preceduto Alex: ci pensò già Benny Carbone, nel 2006, a firmare per il Sydney. Quel Benito Carbone di cui Boskov disse: "Benny Carbone con sue finte disorienta avversari, ma anche compagni". Ci restò poco, un mese, il tempo di tre partite e due reti. Media invidiabile, ma non era aria per lui.

Alex invece va per restarci almeno due anni. Chissà che qualcuno dei suoi figli non inizi a diventare calciatore proprio a Sydney, come iniziò Christian, detto Bobo, in un curioso ricorso storico degno di un romanzo calcistico, come l'ultimo capitolo del Del Piero calciatore.

Pubblicato il 5 ottobre 2012 su Italia Germania 4-3
e su Datasport