venerdì 30 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Tanti auguri Udinese

..finale Coppa Italia 1922: Udinese - Vado Ligure..


Ricorre oggi il 116° compleanno di una squadra di serie A. Il 30 novembre 1896 nasceva, infatti, l'Udinese.Nel fare gli auguri alla squadra e ai tifosi friulani vediamo l'occasione per ricordare una tipica parabola delle squadre italiane (magari di provincia) e raccontare così, per sommi capi, una storia: il calcio in Italia e l'Italia con il calcio.
All'inizio il calcio non è il Calcio. Alla fine dell'Ottocento nascono dei gruppi sportivi, magari d'influenze inglesi, che tra le varie discipline prevedono anche il football. A Genova come a Milano le società gli affiancano, ad esempio, il cricket. Curioso il fatto che anche per un altro sport ora molto popolare, il tennis, la culla sia stata una disciplina così tipicamente britannica, oltre al cricket anche il croquet, o talvolta il golf (si pensi a Wimbledon, torneo organizzato ancora da un club che si chiama All England Lawn Tennis and Croquet Club).
A Udine, invece, il calcio si sviluppa all'interno di una polisportiva che predilige principalmente la scherma e la ginnastica. Un gruppetto gioca anche a "calcio ginnastico", una variante italiana, simile però al football inglese: è un periodo di regole non ancora normalizzate.
Bisogna aspettare il 1911 per avere un'associazione calcistica indipendente nel capoluogo friulano. Negli stessi anni, a Milano nasce l'Inter, e gioca già nell'allora serie A. L'Udinese no, parte dalle serie minori e pian piano, da brava formichina di provincia, si conquista l'accesso alla massima serie. Non sono anni semplici, ci sono due guerre di mezzo, il Friuli è zona di frontiera e più di altre regioni soffre gli eventi bellici, spesso è necessario ripianare debiti e buchi di bilancio, e come vedremo sarà quasi una costante della sua storia, almeno fino all'ultimo decennio del secolo scorso.
Anche il secondo dopoguerra è largamente pioneristico per le squadre non di primissima fascia, non ci sono Moratti a Udine, non sbarca Schiaffino o il tricefalo Gre-No-Li, eppure, tra alti e bassi (si legga serie A, B, e anche C), i bianconeri arrivano al secondo posto finale nel 1954-1955, dietro al Milan. Pure all'epoca ci sono gli illeciti sportivi, l'Udinese ritorna in B e si barcamenerà tra le serie principali e quelle cadette fino a ottenere un primato: è la prima squadra a venir sponsorizzata, seppur camuffatamente, nel 1978, dai gelati Sanson, ed è scandalo, ma anche segno precursore dei tempi a venire.
Parallelamente si nota un fenomeno di costume, a Udine, ma anche ad Avellino o in altre realtà, la squadra diventa vessillo di una regione e di una popolazione.
Senza arrivare a fenomeni tipo Barcellona (simbolo della catalanità), anche in Friuli, complice il boom economico e la ricostruzione post terremoto del 1976, il calcio rivela una forte identificazione tra la gente e la bandiera sportiva, manifestandosi nel suo apice con lo slogan "o Zico o Austria".
I primi anni '80 sono l'inizio di una stagione eccitante per i tifosi, la proprietà passa al patron della Zanussi, Lamberto Mazza, che abitua i fans a grosse spese (Zico, Virdis, Mauro, Causio, Edinho), poi per ripianare debiti subentra l'attuale deus ex machina, Giampaolo Pozzo. Ma tra retrocessioni per demeriti sportivi e altre per illeciti vari, bisogna aspettare ancora un po' prima dell'esplosione definitiva della società, che si compie a partire dagli anni '90 con una nuova strategia rivelatasi alla fine vincente, seppur rischiosa: scovare nuovi talenti, farli maturare, e infine offrirli alle grandi squadre. Semplice a dirsi, difficile a farsi, ma con questa proprietà l'Udinese ha scoperto un uovo di Colombo che è diventato gallina dalle uova d'oro. Non mancano flessioni, come quella che si vive quest'anno, ma sicuramente è l'unica via che al giorno d'oggi possono praticare le squadre di provincia che non hanno un bacino di tifosi che competano con quelli delle grandi città come Roma, Milano, Torino e Napoli (per tacere delle squadre inglesi). Salvare il bilancio, offrire buon calcio e arrivare in Europa sono comunque grossi regali fatti agli aficionados.
Auguri Udinese, e un augurio affinchè altre squadre possano trovare esercizi così virtuosi: potrebbe essere l'unica strada per salvare il calcio italiano, soprattutto quello di provincia.
 
Pubblicato su Datasport.it e Italiagermania4-3.com il 30 novembre 2012
http://datasport.it/attualita/2012/approfondimenti/mi-ritorni-in-mente-tanti-auguri-udinese-pozzo-friuli.htm
 

venerdì 23 novembre 2012

Mi ritorni in mente: ..o tempora, o petroldollares..

..il famoso O Zico O Austria..

Quasi trent'anni fa tutti i tifosi del calcio italiano salutavano con indistinta trepidazione l'arrivo di Arthur Antunes Coimbra, meglio noto come Zico (tradotto in: furetto). In Friuli la trepidazione, forse per la prima e ultima volta a tali latitudini, raggiungeva vette di fanatismo. Portato dal recentemente scomparso presidente Mazza, fu la telenovela del calciomercato 1983. Altro che Mister X...
Ma come mai Zico scelse la serie A e soprattutto scelse Udine?Reduce dalla vittoria al Mondiale, l'Italia era l'Eldorado per i giocatori dell'epoca: non c'erano ancora gli emiri a far scappare i campioni dalla penisola. Bastava il prestigio della serie A per far scegliere a un campionissimo brasiliano anche un posto in una squadra di seconda fascia italica.
Ora dall'Italia i fuoriclasse se ne vanno e entrano solo belle speranze, peraltro pagate fior di quattrini per poi passare stagioni in panchina (vero Edu Vargas, Maicosuel e compagnia bella?).
Non è il momento dei rimpianti, ma ci si può permettere un: ridateci i sogni che i campioni regalano a forza di punizioni e passaggi filtranti. Altrimenti meglio i giovani nostrani, anche se poi saranno proprio loro a lasciarci per le lusinghe dei petroldollari e a infiorettare campionati d'oltralpe pur se già idoli di tifoserie e città.
Non aspettiamoci più i Platini, i Maradona e i Van Basten venuti da fuori a disegnare parabole da illusionisti. L'Eldorado è ora altrove.
Per il momento, in attesa di tempi migliori, accontentiamoci di ricordare le punizioni a foglia morta, i colpi di tacco, ma soprattutto le piazze piene, a Napoli come a Udine. E a ricercare tra noi un talento più cristallino da coltivare come fosse un sogno nel cassetto..
 
Pubblicato su Italiagermania4-3.com e su Datasport.it il 23 novembre 2012
http://www.datasport.it/attualita/2012/approfondimenti/mi-ritorni-in-mente-o-tempora-o-petroldollares.htm
 

..horror vacui litterarum..

The doctor is in - Oggi parleremo dell'angoscia esistenziale nascosta dietro la dimenticanza di una trama.

 
 
 

Panico. Buio. Il vuoto dell'abisso assoluto. Tabula rasa.
Ecco cosa rimane di un ventennio di letture. Ma sarà mai possibile?
Alla domanda, "Hai letto il Visconte dimezzato?" la risposta è: "Sì" (ed è la verità). Cosa succede nel Visconte dimezzato? Boh..
"Hai letto La coscienza di Zeno, Il fu Mattia Pascal, Il nome della rosa e Il Gattopardo?"
"Sì", e so per certo che è la verità.
"Come si sviluppano e come finiscono?"
Boh. Il nulla e un vago senso d'angoscia..
Ma com'è possibile? Eppure ricordo mi piacquero. No, aspetta, qualcosa alla fin fine rimane. Del Visconte dimezzato ricordo Pippo diviso a metà nella trasposizione fumettistica in Topolino, del Nome della rosa ricordo l'incendio finale e la scena erotica prezzolata (derivante dal film e dai miei ormoni adolescenziali, of course). Del Fu Mattia Pascal un'assurda scena in cui c'è un bibliotecario derisibile, La coscienza di Zeno ricordo che lui fuma e che le sorelle iniziano tutte con la A. Per tacere di altre amenità come La luna e i falò, etc etc etc..
Tutto qui quello che rimane? E a parte il piacevole solletico nell'atto stesso della lettura, chi me lo fa fare (o, meglio, chimmeloffaffare)?
Molto meglio dedicarsi ad altro (ma a cosa?) se poi quello che rimane è solo una sensazione (bello/brutto, caldo/freddo) che so almeno dove cercare (stomaco).
 
Rimane per ultimo il fastidio del non ricordo e l'angoscia della dimenticanza: niente promemoria, alerts o reminder per la letteratura.
Alla fine si dirà, "Pazienza, funziono così". Restano dunque solo una sbiadita sensazione per lo più data dal momento in cui si apre il libro e il senso di superiorità nell'averlo letto, necessariamente accompagnata dalla predisposizione all'arrampicatura sugli specchi.
 
Ad ogni modo, almeno nella mia testa, così si giustifica l'esistenza delle biblioteche.


 

lunedì 19 novembre 2012

Compiti per casa

Esperimento per chi volesse: potreste lasciare un commento e dire che cosa vi suscita (se qualcosa vi suscita) la lettura del brano qui sotto? E perché non vi piace? Grazie in anticipo.
 

venerdì 16 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Pepe Schiaffino

..lo stile peperino di Schiaffino..
  
Il 13 novembre di dieci anni fa moriva Juan Alberto Schiaffino. Detto Pepe: le madri riconoscono subito le qualità, piacevoli o spiacevoli che siano, dei loro figli. Nato a Montevideo nel 1925 ha rappresentato un mito nei due mondi cari anche a Garibaldi. Con la nazionale uruguagia ha creato un mito, in Italia ha reso grande il Milan. È considerato uno dei più grandi di sempre e ha fatto da chioccia a un certo Gianni Rivera. Andiamo però con ordine nel tentativo di dare un'idea non solo del calciatore e dell'uomo Schiaffino, ma anche di un ambiente e di un calcio entrato ormai nell'era del mito.
Il piccolo Pepe (raggiungerà il metro e 75 per al massimo 70 chili) nasce a Montevideo, nipote di un immigrato ligure, pare di Camogli; calcia i primi palloni fino a seguire le orme del fratello e approdare nel Penarol. I primi anni è costretto a fare un altro lavoro per sbarcare il lunario come l'operaio o il fornaio. Si impone finalmente in prima squadra, come centrocampista, ragioniere del campo rettangolare, ma anche, come dirà Gianni Brera in anni successivi, illuminava il gioco con la semplicità dei grandi. Era innato in lui il senso della posizione, ma soprattutto aveva carisma. Era nato leader, ma sui generis. Spesso taciturno, introverso, non di rado in disaccordo con allenatori e compagni, tendeva a fare di testa sua, ma con un cipiglio da giocatore maturo già in giovane età.
Non potevano non aprirsi per lui le porte della nazionale, La Celeste; e proprio in occasione di un mondiale che diverrà epopea. Nel 1950, infatti, i Mondiali si svolgevano in Brasile. Inutile dire che tutto pendeva dalla parte dei padroni di casa, figurarsi che già prima della partita decisiva tra le due compagini (ai carioca sarebbe bastato un pareggio) si sprecavano i proclami da trionfatori e i discorsi celebrativi. Il Maracanà ribolliva, a maggior ragione dopo l'1-0 dei brasiliani. Colpiti nell'orgoglio, gli uruguagi, guidati dal leggendario capitano Obdulio Varela (con cui però Schiaffino non andava d'accordo), reagiscono pareggiando con una rete del nostro Pepe. Lo stadio ammutolisce, il gelo si tramuta in tragedia quando Schiaffino confeziona un assist che porta l'Uruguay a vincere la Coppa Rimet, nella tana del leone. Si conteranno diversi suicidi e infarti tra i tifosi brasiliani, inutile sottolineare come quella partita diventò da subito mito.
Dovranno però passare altri quattro anni prima che Pepe Schiaffino trovi un accordo con una squadra italiana. È il Milan del presidente Rizzoli a comprarlo, bruciando la concorrenza del Genoa. Pepe arriva in Italia a 29 anni suonati, ma è tutt'altro che sul viale del tramonto. Parsimonioso fuori dal campo (è inoltre il primo a gestire la propria carriera con piglio imprenditoriale) è generoso nelle sue giocate, geniale inventore del tackle in scivolata da dietro. Con il Diavolo vince tre scudetti in sei anni e segna 60 reti, portando i milanisti a giocare anche una finale di Coppa Campioni. Non bastano queste aride cifre per dare l'idea di chi in patria era considerato semplicemente il Dios del Futbol e in Italia Il Calcio per antonomasia e che con il celeberrimo Gre-No-Li, ma anche con Buffon e Cesare Maldini, e poi con Altafini fece parte di un Milan da sogno. Da oriundo (per Bianciardi il migliore di tutti, più di Sivori per intenderci) sarà anche convocato in Nazionale Italiana, senza fortuna, molto probabilmente per incompatibilità con gli allenatori dell'epoca e per la sfortuna di non essere risucito a portare, unica volta nella storia patria, gli Azzurri al Mondiale di Svezia (1958).
È paradigmatico, infine, di una concezione calcistica l'ultimo spezzone della sua carriera, viene ceduto alla Roma e retrocede in campo posizionandosi davanti al portiere a dirigere i compagni e ad allevare futuri campioni, come De Sisti: così facevano a quei tempi.
Ritornerà infine in Uruguay tentando senza convinzione né buona sorte la carriera di allenatore (eppure sembrava esserlo in campo) e quindi optò per la carriera di imprenditore, in cui, da buon genovese, era senz'altro portato.
Di lui disse Eduardo Galeano: "Schiaffino, con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio". Ora scruta dall'alto dell'Olimpo calcistico assieme ai più grandi di sempre.

venerdì 9 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Pasolini calciatore profetico

..mancino poetico..
 
Esattamente una settimana fa ricorreva l'anniversario della morte brutale di Pier Paolo Pasolini. A 53 anni l'Italia perdeva uno degli ultimi intellettuali che abbiano potuto fregiarsi pienamente di tal nome. Perché lo vogliamo ricordare anche noi? Per tre motivi:
 
- Il primo perché non tutti sanno quanto Pasolini fosse innamorato, appassionato, fanatico del calcio. Alla domanda di Enzo BiagiSenza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?” rispose: “Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l'eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Attenzione, non un calciatore: un BRAVO calciatore. Perché Pasolini ha sempre giocato a calcio, da Casarsa (Pordenone), in cui visse da adolescente, a Bologna dove da ragazzo divenne tifoso della squadra felsinea che allora per lui era “il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone”. E ancora si ricordano le partite tra le varie troupe cinematografiche quando già era affermato regista.
 
- Il secondo motivo è legato a una stagione, una stagione in cui il calcio era raccontato, letto, disaminato da scrittori e giornalisti di caratura altissima. Di questi pochi ne possiamo paragonare con chi oggi ne ha preso il posto. Mi riferisco a Pasolini, ma anche a Brera, Bianciardi e in altri sport a Clerici e Tommasi.
 
- La terza ragione ha a che vedere con la visione, modernissima e poetica del calcio che aveva Pasolini. Visione modernissima perché era un vero appassionato, lo seguiva, si intendeva di tecnica e tattiche e perciò fu profetico come lo fu in altri ambiti (si ripensi alle sue analisi politiche, di costume, di sociologia televisiva, letterarie): “Il segreto del gioco moderno, sul piano individuale, è l’esattezza massima alla massima velocità, correre come pazzi ed essere nello stesso tempo stilisti”. Se non è profezia questa… E poi intervistare i giocatori del Bologna, come fece con, tra gli altri, Giacomo Bulgarelli, nel film documentario Comizi d’amore su tematiche quali l’amore e la sessualità, è anticipare di almeno trent’anni qualunque altro discorso su queste tematiche coinvoglendo anche calciatori. Peccato che ancora nel calcio sussistano diversi tabù (leggasi: omosessualità).
 
Chiudiamo citando il poeta friulano per dare esempio della sua visione romantica del calcio:
 
Il gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Anche il dribbling è di per sé poetico. Infatti il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se si può immaginare una cosa sublime è proprio questa”.
 
I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo "Stukas": ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso”.
 
..“E so come sia terso in questo ottobre
il colle di San Luca sopra il mare 
di teste che copre il cerchio dello stadio”..
 
 
Pubblicato su Italiagermania4-3.com e su Datasport.it il 09 novembre 2012
 
 
 

martedì 6 novembre 2012

Football Clan: La rete della camorra

Seconda parte in cui ripercorriamo sulle orme del libro Football clan di Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo come il pallone sia finito nella rete della camorra. Come sono stati coinvolti Maradona, Balotelli, Cannavaro, Chinaglia e Lavezzi in un gioco più grande di loro? Come fa la camorra a insinuarsi e a prendere controllo di intere società di calcio?




Continua il nostro viaggio alla scoperta del libro Football clan del magistrato Raffaele Cantone e del giornalista Gianluca Di Feo. Nella prima parte che trovate qui, abbiamo introdotto la pubblicazione, ora iniziamo ad entrare nel cuore del libro e nella sezione dedicata alla rete della camorra. Per motivi di spazio ci limiteremo a raccontare a grandi linee solo il rapporto camorra e calcio, ma il libro descrive più dettagliatamente i nodi che coinvolgono anche altri ambiti. Dalla canzone alla politica, dalle imprese di costruzione allo spaccio di droga.
Quando è iniziato tutto? Quando il calcio è diventato qualcosa di più di uno sport per malfattori di diversa fatta? Gli autori individuano un preciso momento storico nel mondiale argentino del 1978. Forse per la prima volta la televisione, ormai a colori, diventa il veicolo privilegiato del calcio. Ma non solo, anche veicolo di propaganda a livello planetario. È l’Argentina della giunta militare che forzò l’evento sportivo per ridurlo a uno spot di potere politico e dittatoriale. Nel frattempo, in Campania, Raffaele Cutolo (il don Raffaè di De André) guida la camorra nella modernità della criminalità organizzata. Come Totò Riina a Corleone, i Cutolo mettono fine alla camorra di carattere e ne fanno un’organizzazione mondiale implicata come una piovra in mille meandri di attività con un solo scopo: il potere. Non contano quasi più i soldi, conta il controllo: del territorio e della gente. E qual è uno dei passatempi più vicini alla gente se non il calcio? Tempi addietro farsi vedere alle processioni del paese, essere omaggiati dalla statua paesana era la patente di celebrità massima; ora che i tempi son cambiati e che il pallone è la religione più diffusa, i boss se ne fanno vanto e lo usano come strumento per entrare in tutti gli strati sociali.
Ecco allora come si spiega la visita del presidente dell’Avellino, Antonio Sibilia, in compagnia di Juary, campione brasiliano finito in Irpinia in quella stagione tanto magica quanto dubbia, a Raffaele Cutolo, allora rinchiuso in un’aula di tribunale a Napoli e in attesa di processo. È il primo, plateale, sfacciato riconoscimento a un boss in cui viene sfoggiato un calciatore famoso. C’è chi si indigna: Luigi Necco, telecronista RAI, denuncia questa collusione alla Domenica Sportiva. La domenica successiva tre sicari lo gambizzano, una punizione tipica del clan dei cutoliani: è un avvertimento per lui, e per tutti. Era il 1980.
Lo stesso anno del primo scandalo del Totonero, le scommesse illecite e le partite truccate. Grande fu lo shock mediatico in tutta Italia, coinvolte tra le altre Milan e Lazio, e giocatori già idoli come Paolo Rossi Bruno Giordano. Un terremoto che avrebbe potuto dare al sistema calcio italiano gli anticorpi che in futuro (si legga: oggi) sarebbero stati determinanti. E invece, complice il Mundial 1982 e l’amnistia che coinvolse un po’ tutti, complice la giustizia ordinaria impreparata e quella sportiva inadeguata, quegli anticorpi non si svilupperanno mai, e ora ne paghiamo le conseguenze.
Da quella stagione, ancora in parte oscura, arriviamo a Maradona. Restiamo però in Campania, a Napoli, dove ai Cutolo si sostituiscono dopo sanguinose lotte, faide e controfaide, i Giuliano. Maradona è stato ed è molte cose. Per Napoli era (è) un dio. Ci fu la lotta tra i clan per chi potesse avere la possibilità di fregiarsi della sua amicizia: uno spot che tra i bassifondi di Spaccanapoli equivaleva a una bandiera perennemente sventolante. Naturale dunque che la polizia ritrovi un intero album (per alcuni sono fotomontaggi) che ritraggono El pibe de oro assieme ai Giuliano nella vasca da bagno a forma di conchiglia.
Ma è il 1986, il Napoli è alla caccia dello scudetto: impossibile divulgarle per motivi di ordine pubblico. Sarà un’altra occasione persa per la produzione di anticorpi al virus delle infiltrazioni camorristiche.
E proprio le foto sembrano anche ai nostri giorni un vero e proprio status symbol per i camorristi, ma non solo. Si pensi al giovane tatuatore napoletano che sulla sua pagina facebook mise una foto dell'ignaro Pocho Lavezzi: uno spot gratuito che più efficace non si può. Peccato che i colleghi non la prendano benissimo: quel tatuatore finirà ammazzato per mano della camorra. Anche così ci si contende l’immagine dei calciatori, non solo attraverso le campagne pubblicitarie delle multinazionali. Altri esempi? Le foto di Hamsik, ma anche la presenza di Balotelli a Scampia. Che ci fa uno come SuperMario nel bel mezzo del territorio camorristico che ogni giorno è teatro di aspre lotte tra cosche rivali e i tentativi delle forze dell’ordine di portare un po’ di legalità? Gli interrogatori del talento italiano più cristallino sono ancora secretati, l’entourage del giocatore fa sapere che Mario, letto il libro Gomorra, volle andare a vedere di persona il quartiere simbolo della camorra di oggi. Altre versioni sostengono che l’onore della visita del campione fu divisa tra gli Scissionisti Antonio Lo Russo, un membro di una delle famiglie più potenti e super tifoso di calcio, tanto da seguire le partite del Napoli da bordo campo, come vediamo nella foto qua a latoSpesso i calciatori sono vittime più o meno inconsapevoli, lo stesso Balotelli ammette di essere stato “ingenuo”. Ma come fanno questi malavitosi ad arrivare a uno come SuperMario?
Già, la questione è proprio questa: come ci si infiltra tra le maglie di una società che ha mille occhi e che è attenta alle persone con cui ti incontri? C’è bisogno di intermediari. Persone che stanno di qua e di là della frontiera. Imprenditori iperattivi, senza grossi scrupoli, faccendieri introdotti nelle camere segrete dove si decidono il destino di grossi capitali frutto di azioni malavitose. Ad esempio come lo sono i milioni, miliardi di euro che devono essere riciclati. E qual è una delle attività principali con cui si possono riciclare ingenti somme di denaro sporco? Storicamente lo sono ristoranti e pizzerie. È notizia recente che in Germania, a detta dello stato tedesco, sono aumentate le aperture di pizzerie e ristoranti, grazie a soldi riciclati, in maniera esponenziale. Ovviamente anche da noi questo è un sistema molto usato e anche qui ci entra il pallone: come? Si prende, ad esempio, un giocatore famoso, lo si fa entrare come socio con quote di favore e lo si usa come prestigioso testimonial. È quello che è successo a Fabio Cannavaro, che si è visto convocato dagli inquirenti per avere spiegazioni sul suo rapporto con Marco Iorio, imprenditore e ristoratore di successo grazie anche al nome di Cannavaro. È un’inchiesta ancora in corso, e non tutti i legami sono stati chiariti. Certo è che tutti si professano innocenti, al massimo si autoaccusano di “ingenuità”.
Però non c’è solo il calcio della serie A. Ci sono i campi di periferia: lontani dalle città, i paesi si uniscono non più nella piazza o attorno al campanile, ma nel campo sportivo. Dalle Alpi alla Sicilia, c’è un intero movimento animato dalla passione sportiva, dalle antiche rivalità campanilistiche, che ogni domenica si riversa nel calcio dei dilettanti o dei semi-pro. Che ghiotta occasione per la camorra! Portare in alto la squadra del paese, acquisire celebrità, prestigio agli occhi del territorio, addirittura usare la squadra per competere nella supremazia all’interno della cosca. È quello che è successo a Mondragone nei primissimi anni ‘90. Il presidente Pagliuca arriva ai vertici della squadra e la usa come spot domenicale, quasi a voler insidiare il potere del boss Augusto La Torre che nel frattempo si trova in prigione. Pagliuca verrà ammazzato mentre al bar del paese sedeva con moglie e figli. Il Mondragone decadrà con lui. Come successe all’Albanova, allora in C2, arrivata a un passo dalla C1. Poi in due anni, decade il boss, decadono le squadre. Ecco l’effetto delle mafie sul calcio paesano, quello che si vorrebbe, almeno lui, più puro del calcio professionistico di ultima generazione.
E poi c’è un altro movimento: quello che dal basso, dai boss della periferia, cerca di raggiungere le vette. È uno dei casi più eclatanti degli ultimi anni. Giorgio Chinaglia, recentemente scomparso, usato (non si saprà mai quanto involontariamente) per arrivare a mettere le mani sulla presidenza della Lazio. Pressioni da ogni lato sull’attuale presidente Lotito. Non solo a livello dirigenziale, con una vera e propria macchina da guerra messa in piedi da Giuseppe Diana con avvocati, commercialisti, faccendieri vari a sostenere nell’ombra lui, Long John, un vessillo per i tifosi laziali, ma anche gli stessi supporter che fecero la loro parte nell’esercitare influenze varie su Lotito. Come tutti sappiamo l’inchiesta anticamorra dei pm di Napoli ha spezzato il sogno di Re Giorgio, morto quest’anno da latitante negli StatesDiana, il camorrista che tentava la scalata, ha preferito sparire, di certo portandosi con sé diversi milioni di euro.
Ma che cosa cerca la camorra in una delle squadre più in vista di serie A? Quello che cercava nelle tribune di periferia: contatti. Accomunati da una fede calcistica, nelle tribune non si fa solo il tifo, si stringono alleanze, si definiscono simpatie e antipatie, insomma, si tirano le fila che muovono pupi e marionette, in un ballo macabro che alla fine costa molto ai veri tifosi. I veri tifosi che vanno allo stadio ormai con il dubbio di vedere una partita onesta, ma anche con la paura di essere circondati dagli ultras. Gli hooligans nostrani non hanno nulla da invidiare a quelli di altre nazioni, anzi, secondo la polizia, la camorra, la criminalità organizzata in generale, è ben presente in diversi settori delle curve. È un rapporto ambivalente: le curve forniscono gente disposta se non a tutto, a molto; alcuni gruppi delle curve ricevono protezione, soldi e contatti privilegiati con giocatori e dirigenti. Ma di questo continueremo a parlare la prossima settimana addentrandoci nel campionato delle mafie...


Gli estremi del libro:
Raffaele Cantone e Gianluca Di Feo, Football clan. Milano: Rizzoli, 2012.
Collana Saggi, 288 p., 17 euro. ISBN : 17059008
 
Pubblicato su Vavel e Italiagermania4-3.com il 06 novembre 2012

sabato 3 novembre 2012

ATP Paris Bercy: Jerzy Janowicz dalle quali alla finale


Prima semifinale del torneo Masters di Parigi Bercy vinta da Janowicz per 6-4 7-5 sul francese Simon. Il polacco affronterà ora il vincente della seconda semifinale tra lo spagnolo David Ferrer e il francese Michael Llodra. Pioggia di dropshots, di aces e alla fine di lacrime per il protagonista della favola del torneo parigino.




Come spesso accade, il torneo di Parigi Bercy, troppo vicino alle Finali dei Masters che iniziano lunedì a Londra, lascia spazio a tante sorprese. Non saranno contenti gli organizzatori che hanno perso i primi quattro del mondo, ma per gli appassionati è l’occasione di vedere giovani emergenti come il polacco ventunenne Jerzy Janowicz. Partito dalle qualificazioni e dalla posizione 69 delle classifiche mondiali, ha battuto grandi nomi del tennis contemporaneo come Murray, Tipsarevic, ma anche Kohlschreiber, Tursunov e Cilic. Insomma, arrivati a questo punto ci si aspetta ormai il coronamento di una favola. Opposto al francese Simon non aveva molto da perdere, anzi tutto da guadagnare. E così è stato!
Il primo set parte senza troppi sussulti, si segue il ritmo dei servizi con Janowicz puntare sulla potenza di servizio e dritto (e qualche drop, come ci ha abituato) e Simon, che non eccelle in nessun colpo, ma sopperisce con la sagacia tattica alla carenza di armi di sfondamento, a manovrare il gioco nei punti meno forti del polacco (segnatamente il rovescio). Al quinto game Janowicz conquista il break aggredendo il francese, sparando traccianti di diritto anche da dietro la linea di fondo e tenendo bene lo scambio. Velocemente si arriva al game di servizio con cui può chiudere il parziale e lo tiene mantenendo freddezza e concentrazione da giocatore navigato. 6-4, 6 aces, 88% di prime in campo che gli rendono più l’86% punti e ben 20 vincenti sono il bottino di un ottimo primo set per il polacco che ha anche approfittato di un Simon poco propositivo.
Il secondo parziale parte sulla falsariga del primo, ma il polacco sembra un po’ troppo frettoloso nel cercare di chiudere gli scambi, mentre Simon cerca nuove soluzioni e si fa ingannare di meno dai drop biancorossi. È comunque il servizio di Janowicz a farla da padrone: questo colpo non cala e quindi ci si trascina al 5 a 5. È il fatidico undicesimo game a condannare Simon. Male Gilles che continua a non osare, bene Jerzy che sale di livello proprio in questo turno di risposta e se l’aggiudica con autorità. È una formalità poi chiudere game, set and match al servizio con lo score di 7 a 5 con un drop shot e lacrime di gioia.
Dopo questa bella vittoria per 6-4 7-5, Janowicz aspetta per la finale di domani alle ore 15 il vincente dell’altra semifinale in programma alle ore 17 che vede di fronte l’altro francese ancora in gara Michael Llodra e lo spagnolo David Ferrer: un confronto di stili per fini intenditori di tennis.

Articolo pubblicato su Vavel il 3 novembre 2012

Mi ritorni in mente: Quando gli dei compiono gli anni..

..la mano de dios del pibe de oro..


Martedì scorso, 30 ottobre, ricorreva l'anniversario della venuta al mondo di Diego Armando Maradona.
È strano per tutti vedere come passino gli anni, c’è chi se li sente addosso e chi li vede accumularsi negli altri. Solo lui, El pibe de oro, il ragazzo d’oro, sembra sempre uguale a sé stesso, forse perché non è mai stato uguale a niente e a nessuno.

Nessun paragone è mai stato davvero possibile con lui. Eduardo Galeano, uno dei più grandi scrittori viventi del Sudamerica, e forse il più grande scrittore di calcio, dice di Dieguito: “Maradona è incontrollabile quando parla, molto di più quando gioca”. E la sua vita è stata e sembra ancora un gioco eterno, con il pallone tra le gambe, i piedi ben piantati in terra, ma la testa, e le gambe, e le mani quasi protese verso il futuro, verso il cielo.

Nel nostro piccolo vogliamo ricordarlo nella sua sfera sacrale.
Non è un caso se per lui, da lui, si è coniata l’espressione Mano de Dios. E non è un caso che in molti vedano Maradona circonfuso da un’aura sacra, come i Re Taumaturghi di un tempo, come i sovrani asiatici paragonati al Sole. Dice Emir Kusturica, nel suo Maradona by Kusturica: “È un dio. E agli dei si perdona tutto”.

Canta Manu Chao con i Mano Negra: “Santa Maradona priez pour moi”, Santa Maradona prega per me. Nei campi da calcio è sempre stato l’Onnipotente, lui che ha travalicato le leggi della fisica usando un corpo che a vedersi sembrerebbe adatto solo al subbuteo, facendo passare, scendere e salire palloni quasi contro le leggi dell’impermeabilità dei corpi e della gravitazione universale, lui che per davvero, per una città intiera è stato al pari di San Gennaro e per una nazione una divinità azteca. E pensare cosa avrebbe potuto fare se non si fosse fatto di cocaina (parole sue). Paradiso e inferno in un corpo solo.


Per molti è dunque un dio, anzi un Dio con la D maiuscola. Ci rieferiamo alla Iglesia Maradoniana, che conta ormai 120.000 adepti e per cui, ovviamente, martedì scorso era Natale dell’anno 52 d.D. (dopo Diego).

E così pregano loro:
Diego nuestro que estás en las canchas. 
Santificada sea a tu zurda, venga a nosotros tu magia. 
Háganse tus goles recordar en la Tierra como en el Cielo.
Danos hoy la magia de cada día, perdona a los ingleses, 
como nosotros perdonamos la mafia napolitana, 
no nos dejes caer en off-side y líbranos de Havellange y Pelé. Diego!

Diego nostro che sei nei campi
santificato sia il tuo sinistro, venga a noi la tua magia.
Possano i tuoi gol ricordarsi in Terra come in Cielo.
Dacci oggi la magia quotidiana, perdona gli inglesi
come noi perdoniamo la mafia napoletana,
non ci far cadere in off-side e liberaci da Havelange e Pelé. Diego!


Articolo pubblicato su Datasport.it e Italiagermania4-3.com il 03 novembre 2012
e

Bidoni: l'incubo

Furio Zara, Bidoni: l'incubo.
Da Aaltonen a Zavarov 100 storie di campioni in teoria, brocchi di razza, guitti, avventurieri e giullari del calcio italiano dal 1980 a oggi.
 
Prefazione di Gianni Mura. Milano, Kowalski, 2006. ISBN: 88-7496-719-5. 271 p., 10,00 euro.