TENNIS - Breve profilo di uno dei Grandissimi del tennis che ha vinto solo due Slam da giovanissimo; un signore che ha dovuto combattere contro i pregiudizi, sempre solo, lui e la sua racchetta di legno, ma che ha saputo attraversare il mondo dei dilettanti, dei pro e l'era open con la combattività di un leone: Pancho Gonzales. "Faceva la metà dei punti con il terrore che incuteva" disse Jack Kramer. Enos Mantoani
Tracciamo la mirabolante parabola di Pancho Gonzalez (9 maggio 1928 – 3 luglio 1995), l’esempio più lampante di come per essere annoverati tra i migliori di sempre non basti calcolare il numero di Slam vinti! Iniziamo
intanto a mettere ordine nella selva di nomi che si trascinò dietro:
nato negli USA da genitori immigrati dal Messico, nacque come Ricardo
Alonso (o Alonzo) González, i suoi nomi vennero poi spesso
americanizzati in Richard Gonzales oppure con gli affettuosi Pancho o
Gorgo (dal nostro Gorgonzola: all’inizio della carriera lo avevano
infatti battezzato come cheese player…).
Trascorse un’infanzia povera, difficile, poco o male aiutato dalle
istituzioni (cioè dai college americani), ma spalleggiato dalla larga
famiglia e da un amico speciale: Frank Poulain, proprietario di un
tennis shop all’Exposition Park, il parco di Los Angeles dove Pancho
bambino trascorreva le giornate a giocare e a guardare giocare e poi a
imitare i migliori. Si rifugiava poi da Poulain, dove spesso dormiva e
si nascondeva da poliziotti e nemici di strada. Il tentativo
fatto di trovare aiuto “istituzionale” fallì, anche perché Pancho non ne
voleva sapere di studiare; lui voleva solo giocare, fu così costretto a
imparare praticamente da solo; e sempre fu praticamente un “cane
sciolto”, nel campo e nella vita. E il campo da tennis e la sua
vita furono così intrecciati da condizionarsi l’un l’altro in maniera
prodigiosa. Il tennis era tutto per lui, ma il fatto di venire da una
famiglia povera e la sua indole condizionarono le scelte professionali
in maniera determinante.
Passò l’adolescenza a cercare di riuscire a guadagnarsi il pane (e
magari qualcosina in più) come tennista; ovviamente il padre aveva ben
poca fiducia nella possibilità che il tennis gli desse da vivere.
Finalmente, a 19 anni, dopo aver passato i suoi anni di formazione
psico-fisica tra la Marina (mentre terminava la Seconda Guerra Mondiale)
e guai con la legge (per furto con scasso), questo ragazzo di circa un
metro e novanta per 83 kg. iniziò a farsi conoscere raccogliendo
importanti risultati nella West Coast e raggiungendo il numero 17 nel
ranking nazionale. L’anno successivo, 1948, vince a forza di
serve and volley il suo primo US Championships da outsider, prendendosi
una prima rivincita nel borghese ambiente di anglo americani.
Era già bellissimo, potente, cattivo in campo, ma al contempo agile e
dotato di un tocco sopraffino. Seguì un anno poco felice, a Wimbledon
fece malino, guadagnandosi il soprannome di cheese champ, ma ebbe la
forza di bissare il successo agli US Championships contro Schroeder in
una partita epica al quinto set, da cui rimontò da due set sotto ed era
ormai il miglior amatore dell’epoca.
Fu allora semplice per lui scegliere la carriera di professionista.
Il suo primo anno da pro fu però un disastro, battuto regolarmente da
Kramer (il miglior giocatore del momento) fu escluso dal giro dal
promoter Riggs con una buonuscita da 75.000 dollari. Fu una
sorta di semiritiro, si dedicò a progetti che finirono presto male e uno
stile di vita letale per il tennis (fumava, non faceva alcuna dieta,
dormiva quando capitava, giocava pesantemente a poker)… Dovettero
passare alcuni anni prima che Jack Kramer, in veste di promoter,
lo richiamasse per reinserirlo nelle tournée professionali; vinse così
tanto che quasi rimase senza lavoro perché era troppo forte! Batteva
gente come Don Budge, Segura, Kramer… Per la successiva decade fu il
migliore, battendo costantemente, tra gli altri, anche Rosewall e Hoad.
La combinazione di una voglia di vincere mai sazia, di un servizio devastante e il gioco a rete praticamente impassabile costrinsero
addirittura a cambiare, per un certo periodo di tempo, le regole: chi
batteva doveva lasciar rimbalzare la palla prima di colpirla una seconda
volta…Nel frattempo, i rapporti con i colleghi erano tesi (per
usare un eufemismo): Pancho era spesso pagato molto meno degli
avversari che sonoramente batteva, e inoltre era spesso il nome di
richiamo sui cartelloni. Anche per questo lui infieriva sugli avversari e
con Kramer spesso nascevano diverbi sui contratti (finirono anche in
tribunale per questo). D’altro canto, Pancho non faceva nulla per
promuovere i tour (gli altri giocatori firmavano autografi, etc…) e
arrivava, solo, in tempo per le partite per poi scappare appena fatta la
doccia. Era entrato nel mondo professionistico per cercare di far
soldi, e ormai, forse, vedeva solo il lato competitivo e monetario della
faccenda. L’unico con il quale cercò di andare d’accordo era anche l’unico che riusciva a tenergli testa: Lew Hoad.
Arrivato il famoso 1968, Pancho aveva ormai 40 anni, ma non per
questo rinunciò agli Slam, facendo una discreta figura. Al Roland Garros
si arrese nelle semi a Rod Laver, e l’anno successivo viene
ricordato dai più per il più lungo match di Wimbledon (prima del 2010,
ovviamente). Il 41-enne Pancho affrontava Pasarell, di 16 anni più
giovane, in un match che durò 5 ore 12’. Una battaglia epica, l’ultimo
ruggito del vecchio leone! Non poteva comunque arrendersi,
Pancho, e continuò ancora per alcuni anni a battersi, spesso vincendo
contro giovani (tra cui Ashe e Connors) e coetanei della vecchia guardia
(Laver su tutti, che battè in un incontro organizzato subito dopo che
questi ottenne il Grand Slam).
Se la sua carriera fu così avventurosa, non meno lo fu la sua
vita privata. Morì in povertà nel 1995, a causa di un tumore, assistito
solo dall’ultima moglie (Rita Agassi, sorella di Andre) e dalla loro
prole. Si sposò ben sei volte, facendo spesso ammattire le
proprie mogli. Si lanciò in molteplici imprese finanziarie, tutte
miseramente fallite. Provò diversi mestieri, ma solo il giocatore di
tennis faceva per lui. Era duro, durissimo, a volte cattivo di
carattere. Pancho Segua diceva di lui: “Pancho non è un santo. Ma chi ha mai visto un santo con la racchetta?”. Rod Laver disse che, in campo, era Pancho the bastard. Jack Kramer diceva che metà dei punti Pancho li faceva col servizio, l’altra metà con il terrore che incuteva.
A volte però le sue analisi erano notevoli, io mi riconosco in questa: “C’è un circolo virtuoso nello sport: più ti diverti più ti alleni; più ti alleni più migliori; più migliori più ti diverti”.
Parabola davvero atipica di questo figlio di immigrati messicani che
osteggiato dalla società dell’epoca riuscì soprattutto grazie alla sua
forza di volontà, oltre che da un fisico naturalmente dotato per lo
sport, a diventare uno dei più grandi di sempre…
Pubblicato su Ubitennis il 15 settembre 2011
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